LA VERITÀ VI PREGO, SU ISRAELE

LA VERITÀ VI PREGO, SU ISRAELE

Conoscere il passato, saper leggere il presente: ecco come smontare pregiudizi e fake news sul conflitto in corso. Contro i mantra degli ebrei tutti ricchi, dell’apartheid, di Gaza palestinese da sempre. Contro i silenzi e le omissioni su Hamas e sulle prospettive di pace. Un saggio

Insegno in Università da 32 anni e, da sempre, mi occupo di Medioriente con particolare attenzione ai temi dei diritti delle donne e alle questioni legate alla percezione degli insediamenti. Ho fatto lezione a quasi diecimila studentesse e studenti: i più mi hanno dimenticata, qualcuno mi manda ogni anno gli auguri per il compleanno, con alcuni ho fatto amicizia, con due o tre collaboro. Ho incontrato ragazzi anche al di fuori dell’ambito accademico: dall’estrema sinistra all’estrema destra. Tra i primi qualcuno mi ha contestata in maniera non proprio confacente al dialogo accademico. Tuttavia due di quei ragazzi, dopo avermi reso la vita davvero impossibile per mesi, hanno accettato una sfida: leggere almeno un libro tra quelli che avevo scritto. Mesi dopo si sono riaffacciati al mio studio dicendomi che “prima” avevano creduto che io fossi “di parte”, ma che leggendo quanto avevo scritto avevano capito che intendevo solo sviluppare senso critico e riflessione, tanto che avevano deciso di consigliare i miei corsi universitari ai loro amici. Devo ammettere che non avrebbe potuto esserci recensione più lusinghiera e apprezzamento più gradito. Perché il problema, per noi che osserviamo dall’esterno l’evolversi degli eventi e viviamo in paesi perfettibili ma democratici, sta tutto qui: in un modo o nell’altro emettiamo dei pre-giudizi senza davvero conoscere, senza aver la curiosità di leggere. Siamo pigri e questa nostra indolenza finirà col portarci a perdere quelle libertà che diamo per scontate. Non importa se siamo studenti, insegnanti, operai o impiegati: bombardati da migliaia di informazioni, video, fake news, non siamo in grado di addentrarci con passione nella ricerca delle fonti, ci fermiamo ai titoli e diventiamo preda di chi ci vuole burattini facilmente manovrabili. Gli studenti di oggi, a differenza dei miei due contestatori pentiti, difficilmente leggono un libro per intero: cercano in rete i riassunti già pronti o, se possibile, dei video su YouTube. Non deve pertanto stupire se, quando pensano a Israele, lo ritengano un paese più grande dell’Italia (quando di fatto è più piccolo del Piemonte) o pensino che oltre al Giordano vi scorrano il Tigri e l’Eufrate (che scorrono invece in Turchia, Siria e Iraq) o addirittura che l’islam sia nato in Israele (che chiamano Palestina) prima dell’ebraismo e del cristianesimo. Nonostante ciò, se si parla del conflitto in corso, sono convinti di sapere tutto, soprattutto di sapere che Israele è sempre nel torto. Purtroppo, molte volte, anche gli intellettuali difettano di conoscenza e si avventurano in ipotesi azzardate, come quella che vorrebbe uno Stato d’Israele in cui vige l’apartheid, solo che, in quanto intellettuali, quando sbagliamo non siamo così umili da ammetterlo.

Una buona dose di curiosità

E’ inutile negarlo: siamo un paese di criminologi, virologi, allenatori di calcio ed esperti di Medioriente. Su Israele e sul popolo ebraico si pensa davvero di sapere tutto e i pregiudizi si sprecano. Quante volte, sui quotidiani, abbiamo letto, relativamente a Soros, la definizione di miliardario ebreo? Moltissime. E quante volte Berlusconi, per non fare che un esempio, è stato definito miliardario cattolico? Nemmeno una. Da qui comincia il pregiudizio: gli ebrei sono ritenuti tutti ricchi, per questo meritevoli di un giusto disprezzo. Eppure nessuno tra quanti la pensano in questo modo sa che il 23 per cento dei cittadini israeliani adulti e il 31,7 per cento dei bambini vive sotto la soglia di povertà. Di fatto il nostro dramma è la mancanza di curiosità scientifica: per questo finiamo col ripetere mantra, per certo aggregativi, ma del tutto privi di dubbi.

Uno di questi mantra fa riferimento, come s’è detto, a Israele come stato in cui si pratica l’apartheid. Questo senza neppure riflettere sul fatto che non vi sono, in Israele, mezzi di trasporto o scuole o quartieri vietati agli arabi. Basti pensare che negli ultimi sette anni il numero degli studenti arabi nelle università israeliane è cresciuto del 78,5 per cento. Nel 2018 il numero di dottorandi di ricerca arabi in Israele ha raggiunto le 759 unità. Possibile poi che nessuno si sia mai accorto che vi sono diversi partiti arabi rappresentati al parlamento israeliano e che, volendo, gli arabi possono anche presentarsi – e venire eletti – tra le fila dei partiti tradizionali? Il governo precedente a quello di Netanyahu, ad esempio, aveva al suo interno il partito arabo-islamico Raam con quattro seggi. Di fatto gli arabi in Israele godono di pieni diritti politici e civili e possono assurgere a qualsiasi carica, al pari dei cittadini ebrei. In queste ore, nell’esercito israeliano, stanno combattendo per Israele cittadini arabi, drusi, beduini, ebrei, islamici, cristiani, atei.

Il secondo mantra riguarda Gaza, percepita dai più come palestinese e islamica da sempre. Le immagini che ci vengono in mente, al solo pronunciarne il nome, sono quelle dei palazzi diroccati e devastati dalle bombe (israeliane), delle rampe di lancio missilistiche di Hamas (nascoste dietro alle scuole e negli ospedali), dei tunnel fatti scavare dai bimbi (nel solo 2014 ben 160 bimbi palestinesi, secondo il Simon Wiesenthal Center, sono morti durante gli scavi). Per quanto si vada indietro con la memoria, si tende al più a ricordare la conquista ottomana del 1517. Difficilmente si pensa a quella di Napoleone del 1799 o alla presa di Mohammed Alì (non il pugile!) che porta Gaza sotto l’ala protettiva dell’Egitto. Dal 1917, quando l’Impero ottomano viene sconfitto, la storia è nota: il Mandato britannico sulla Palestina (che comprendeva gli attuali Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza, oltre l’attuale Regno di Giordania) dura sino al 1948. In quell’occasione – avendo i leader ebrei accettato la spartizione dell’Onu – nasce lo Stato d’Israele, mentre la Cisgiordania, a seguito della guerra araba contro il neonato Stato d’Israele, viene annessa alla Giordania e la Striscia di Gaza finisce sotto occupazione egiziana. La Lega Araba aveva infatti rifiutato il piano per la seconda spartizione (la prima era stata operata dagli inglesi nel 1921 con la creazione dello stato arabo-palestinese della Giordania) e dato avvio alla prima guerra arabo-israeliana, i cui esiti finiscono con lo sconvolgere la possibilità della nascita di uno stato palestinese accanto a uno israeliano.

Per ben 17 anni – dal 1949 fino al 1967 – Gaza rimane sotto il governo militare egiziano. Come conseguenza della guerra dei Sei giorni (1967), viene infatti occupata da Israele che ne amministra il territorio sino al 1993. A partire da quella data, grazie alla “dichiarazione di princìpi” nota come “accordi di Oslo”, la quasi totalità del territorio di Gaza e della Striscia passa sotto il controllo dell’Autorità palestinese, mentre gli insediamenti ebraici continuano a essere difesi dall’esercito d’Israele sino al 2005. Tuttavia da quel momento Israele procede allo smantellamento delle colonie ebraiche e delle basi militari israeliane, ponendo così definitivamente termine all’occupazione.

Le domande, a questo punto, sono due: 1) perché tra il 1949 e il 1967, quando Striscia di Gaza e Cisgiordania sono in mani arabe, non nasce lo Stato di Palestina? 2) perché, a partire dal 2005, dopo la fine dell’occupazione di Gaza non nasce il primo nucleo di Stato palestinese? Viene il sospetto che la questione dell’occupazione non sia la motivazione più forte che sta alla base del protrarsi degli scontri.

Ad ogni modo, in seguito alle elezioni amministrative del 2006 la Striscia di Gaza è governata da Hamas e, dal 2012, è riconosciuta dall’Onu come parte di un’entità statale semi-autonoma. Purtroppo i continui scontri lanciati contro Israele – cui Hamas continua a negare il diritto ad esistere – e le conseguenti risposte militari israeliane hanno portato la città e la regione a un evidente stato di prostrazione economica e sociale.

Non aver paura della storia(e nemmeno della geografia)

Come s’è detto, Gaza non nasce come città palestinese o islamica. Da un punto di vista storico sappiamo che il Faraone Thutmose III, alla guida delle sue truppe, nel 1457 a.C., risale la “strada di Horus”, come veniva designata la Via Maris, ovvero la strada costiera ai tempi dei Faraoni e, proprio a Gaza, sceglie di celebrare il ventitreesimo anniversario della sua ascesa al trono.

L’islam nascerà quasi 2100 anni dopo che Gaza aveva ospitato i festeggiamenti di Thutmose III, ponendosi pertanto come la terza fede monoteistica in ordine di apparizione. Perché ribadire ciò che dovrebbe essere noto a tutti? Dopo 32 anni di insegnamento non posso fare a meno di notare – come ho scritto più sopra – che molti dei nostri studenti e delle nostre studentesse ritengono, tanto da metterlo per iscritto agli esami, che l’islam sia la fede più antica, nata in Palestina. Questo crea confusione anche per la comprensione dell’attualità, inducendo a percepire gli ebrei come europei colonizzatori di terre da sempre arabe. E proprio su temi come questi si gioca la disinformazione.

Di fatto Maometto, il profeta dell’islam, ha predicato per tutta la sua vita tra La Mecca e Medina, nella penisola araba, a 3.500 km da Israele. Non si è mai recato a Gerusalemme e mai ha avuto interesse nella conquista d’Israele.

Gerusalemme rappresenta da sempre il cuore della spiritualità ebraica e sebbene Gerusalemme e la Terra d’Israele abbiano subito varie dominazioni straniere e il popolo ebraico sia stato più volte, anche se mai del tutto, disperso, né la città né la terra sono mai state dimenticate. Nemmeno quando nel 132 d.C. l’Imperatore Adriano fa radere al suolo Gerusalemme e tenta di cancellarne ogni ricordo a partire dal nome. Gerusalemme viene così ricostruita secondo la pianta tradizionale degli accampamenti romani e chiamata Aelia Capitolina, mentre la Terra d’Israele viene ridenominata Siria-Palestina. Ecco da dove nasce il nome Palestina! L’Imperatore Adriano, nel tentativo di de-ebraicizzare la Terra d’Israele, fa riferimento al nome degli antichi Filistei, popolo greco che adorava Beelzebub e che per breve tempo si era insediato in un tratto della costa mediterranea, annientati poi dall’occupazione di Nabucodonosor.

La situazione per gli ebrei peggiora ulteriormente nel IV secolo, quando il cristianesimo – per opera dell’imperatore Teodosio – diviene la religione ufficiale dell’Impero e gli ebrei vengono sottoposti a una legislazione molto dura a causa dell’accusa di deicidio. Proprio per via delle persecuzioni, il centro della vita ebraica si trasferisce a Babilonia e, per la prima volta, gli ebrei non risultano più la maggioranza nel paese, sebbene ancora numerosi in Galilea. Quando nel 636 d.C. i musulmani conquistano la Palestina e, due anni dopo, Gerusalemme, gli ebrei – che avevano sofferto moltissimo sotto il dominio bizantino – salutano con un senso di sollievo i conquistatori arabi: possono così tornare a Gerusalemme e insediarsi nel quartiere a ridosso del Kotel Hamaaravi (il muro di cinta occidentale del Tempio, che i non ebrei chiamano “Muro del Pianto”) che diventerà poi il quartiere ebraico della Città Vecchia. Nonostante ciò verranno comunque trattati come cittadini inferiori agli islamici e, come tali, sottoposti alla dhimma dal momento della conquista sino a tutto il periodo dell’Impero ottomano.

L’esistenza ebraica, sotto il dominio islamico, oscillerà infatti tra tolleranza e discriminazione. C’è da dire che l’islam, per vari secoli, non è sembrato interessato a Gerusalemme. Questo nonostante nel 691 d. C. il califfo Abd al-Malik avesse fatto costruire la Cupola della Roccia proprio nell’area su cui erano stati eretti il Primo e il Secondo Tempio. Scopo del califfo non era tuttavia quello di rendere Gerusalemme la terza città santa per l’islam, ma semplicemente di divergere il pellegrinaggio dalla Mecca (occupata in quel periodo dal ribelle ‘Abdallah b. al-Zubayr) verso Al-Quds, come gli islamici chiamano Gerusalemme. La moschea di al-Aqsa viene invece costruita alcuni anni dopo da suo figlio al-Walid sulle rovine di una chiesa cristiana che si ergeva vicino alla cupola. Con l’avvento della dinastia abbaside, nel 750 d.C., la corte califfale è spostata da Damasco a Baghdad e Al-Quds torna a perdere la sua importanza strategico-politica per l’islam.

Che Gerusalemme non abbia rivestito, almeno sino a metà del 1200, una forte valenza religiosa per l’islam è anche dimostrato dalla propensione dei governanti islamici a cedere la città in cambio di un sostegno militare da parte degli Imperatori cristiani. Basti pensare a quando, nel pieno delle Crociate, alla fine del 1239, il sultano al-Nasir Dawud riesce a riconquistare Gerusalemme per poi cederla nuovamente ai Franchi in cambio di un sostegno militare contro suo cugino al-Salih. O ancora a quando, nel 1244, il sultano ayyubide al-Nasir Yusuf propone a Luigi IX di restituirgli la città se i Crociati lo avessero aiutato sul campo di battaglia contro i mamelucchi del Cairo. Proposta che viene rifiutata dal re franco, ma che non cambia la sostanza delle cose: Gerusalemme non era ancora sentita una città santa per l’islam, altrimenti non l’avrebbero mai barattata in cambio di semplici aiuti militari.

Da quel momento a Gerusalemme comincia la dominazione mamelucca e anche in questo caso, così come nel passato, nessun governante islamico sceglierà Gerusalemme/Al-Quds quale capitale del califfato o di un qualsiasi stato islamico. D’altra parte sono noti gli scritti, a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, del giurista islamico Taqi al_Din ibn-Taymiyya secondo cui “la roccia di Gerusalemme su cui è stata costruita la Cupola della Roccia altro non è che una qibla mansukha, ovvero una direzione di preghiera che è stata annullata e la cui santità è stata dunque revocata”. Allo stesso modo, la tradizione che vede Maometto ascendere al cielo partendo da Gerusalemme pare essere inficiata per lo meno da un errore geografico. Il Corano non cita mai espressamente Gerusalemme e studiosi come Ahmad Muhammed Arafa sono propensi a ritenere che il luogo da cui il Profeta è partito per la sua ascensione in cielo fosse un altro. Nel Corano si legge: Gloria a Colui che rapì di notte il Suo servo dalla Moschea Santa alla Moschea Lontana, di cui abbiamo benedetto i dintorni, per mostrargli alcuni dei Nostri Segni(Corano XVII, 1) e per secoli la Cupola della Roccia – eretta accanto alla moschea di al-Aqsa – è stata identificata come la “moschea lontana” per via della sua vicinanza alla moschea di al-Aqsa. Infatti in arabo il termine al-Aqsa è una forma di superlativo che significa “la più distante”. Ma di fatto il luogo al quale, secondo la tradizione islamica, viene trasportato il Profeta era una moschea e non un luogo sul quale sarebbe stata costruita in seguito una moschea. E la moschea di al-Aqsa verrà costruita soltanto nell’VIII secolo d.C. Altri studiosi, come ad esempio Hasson, affermano che i primi esegeti del Corano facessero riferimento a una moschea celeste: l’identificazione della moschea al-Aqsa di Gerusalemme sarebbe dunque una recente scelta politica, per nulla ricollegabile alla fede. Non irrilevante, a questo proposito, risulta il fatto che il nesso tra Gerusalemme e il racconto coranico del “viaggio notturno” di Maometto, nasca soltanto a partire dal 1035 d.C., quindi quattrocento anni dopo la fondazione della moschea stessa. D’altra parte, come s’è detto, il Corano non cita mai espressamente Gerusalemme, né lo fanno i primi hadith, non per niente sino al X secolo i musulmani hanno chiamato la città Bayt al-makdis, dall’aramaico Bîth makde’shȃ, città del Tempio. Lo stesso termine Al-Quds – che molti erroneamente traducono “la santa” – deriva in realtà dall’ebraico ‘ir hakkodesh e significa “città del santuario”. Alla città di Gerusalemme l’islam non ha infatti mai conferito lo status di haram, luogo santo, che è unicamente conferito alla Mecca e a Medina.

Tutto ciò può sembrare mero esercizio di ricerca storica, eppure rappresenta qualcosa di estremamente importante e affascinante insieme. Fa male vedere come molti intellettuali, molti insegnanti, anche docenti universitari si accostino al moderno Stato d’Israele senza neppure immaginare la complessa relazione spaziale che lega gli ebrei ad Eretz Israel e a Gerusalemme. Questa scarsa propensione alla ricerca e alla curiosità storica comporta talvolta più di qualche fraintendimento: storico, geografico e anche politico. Quando l’Unesco nel 2016 ha implicitamente scelto di negare il rapporto che lega il popolo ebraico al Monte del Tempio e al Muro del Pianto, definendo quegli spazi come sacri per la sola fede islamica, tanto da abolire l’uso dei relativi nomi ebraici, ha compiuto una scelta politica incurante non soltanto della tradizione ebraica, ma anche della storia e dell’archeologia.

Gli occhiali “dell’altro”

Saper indossare sul naso gli occhiali “dell’altro” è esercizio per nulla semplice che, tuttavia, si chiede sempre (e per fortuna) a chi si occupa d’Israele, ma mai si chiede (peccato) a chi si occupa di Palestina. Così, dal momento che vivo e lavoro in Ue e non a Gerusalemme o a Ramallah o a Gaza, proverò a porre sul mio naso ben due paia di occhiali per cercare di evitare partigianerie e tifi da stadio. Pazienza se riuscirò a scontentare tutti.

Un punto su cui vorrei porre l’attenzione e su cui l’accordo tra israeliani e palestinesi si è arenato negli anni può essere ricondotto all’inamovibile richiesta palestinese del “ritorno” di circa 8 milioni di profughi all’interno dei confini d’Israele. Moltissime persone, al giorno d’oggi, pensano che la richiesta di rientro dei profughi sia da intendersi all’interno del futuro stato palestinese. Non è così.

Quello dei profughi e dei loro discendenti è un problema spinoso. Come già nel 2005 scriveva Van Aken: “I rifugiati palestinesi di quarta generazione permangono in una relazione di assistenza che perdura da più di mezzo secolo con l’agenzia internazionale Unrwa, un’istituzione storica ma anomala nel contesto delle Nazioni Unite. […] L’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency for Palestinians in the Near East) è nata nel 1949 con un mandato di quattro anni per assistere (Relief) ma anche per reintegrare i rifugiati nelle economie dei paesi ospitanti (Giordania, Siria, Libano) attraverso progetti di lavoro (Works), o meglio, di sviluppo. Questo mandato temporaneo è stato rinnovato allo scadere di ogni quattro anni per più di mezzo secolo, proprio a causa della continua mancanza di una soluzione politica”.

Si tratta di una condizione difficilmente accettabile da Israele, messa tuttavia sul tavolo delle trattative sia da Arafat che da Abu Mazen e che ha sortito quale unica conseguenza l’impossibilità per i palestinesi di avere un proprio stato: i due leader, nel corso dei decenni, hanno così continuato a rifiutare qualsiasi proposta di pace. Tralasciando gli aspetti politici e concentrandoci esclusivamente sugli aspetti geoeconomici e ambientali, non possiamo fare a meno di chiederci cosa sarebbe accaduto se, una volta giunti in Israele, questi profughi palestinesi avessero deciso di non voler restare nello Stato d’Israele, ma di voler – a buon diritto – diventare cittadini palestinesi dello Stato di Palestina. Le città palestinesi non sarebbero state in grado di fornire un ambiente di vita adeguato ai loro abitanti. E neppure Israele ci sarebbe riuscito: non dimentichiamo che lo Stato d’Israele, esclusi Striscia e Cisgiordania, è per ampiezza più piccolo di una regione italiana (20.770 kmq) e che il suo territorio, per il 60 per cento, è costituito dal deserto del Negev. Ciò rende di fatto utilizzabile a scopi urbanistici solo poco più di 10.000 kmq per 9.187.000 abitanti, dei quali il 74,8 per cento ebrei e gli altri arabi (circa 2.500.000). L’inserimento di ulteriori 8 milioni di palestinesi in territorio israeliano avrebbe pertanto portato gli ebrei a divenire minoranza in Israele e alla creazione, de facto, di due stati palestinesi nella regione: entrambi in sofferenza per mancanza di infrastrutture e risorse adeguate a un simile repentino aumento di popolazione.

La leadership attuale, come anche quella del passato, pare non riuscire a districarsi tra i tanti problemi che affliggono i Territori: dall’alta densità di popolazione all’alto tasso di disoccupazione, dagli alti livelli di povertà alla difficoltà di accesso ai servizi indispensabili per un territorio che aspira a diventare uno stato sovrano (scuole, università, ospedali). La frattura tra Autorità palestinese e Hamas e le scelte ideologiche e terroristiche di questi ultimi non fanno che peggiorare la situazione. Basti pensare alla situazione femminile, divenuta – con l’avanzata dell’islamismo a Gaza – assolutamente drammatica.

Il contesto economico, com’è immaginabile, è al collasso e l’economia palestinese continua a dipendere in larga misura dagli aiuti esteri e da Israele, il quale nel corso degli anni, a causa dei continui contrasti, ha reso più difficoltoso il commercio tra i due paesi gravandolo di un complesso sistema di permessi, tasse, controlli di sicurezza che ha finito col limitare la circolazione di beni e persone. Inoltre la frammentazione geografica tra la Cisgiordania e Gaza e all’interno delle diverse aree palestinesi attraverso i checkpoint, come anche le chiusure all’indomani di ogni attentato, non possono che creare dei problemi finendo con l’aumentare i costi di trasporto e produzione e portando a un significativo declino delle attività economiche palestinesi. Non migliori risultati ottengono le destinazioni di parte degli aiuti esteri, ma anche lo stesso boicottaggio delle attività israeliane negli insediamenti cisgiordani non sempre è di beneficio ai civili palestinesi. Sono infatti alquanto recenti le polemiche sollevate dall’ong Monitor (2020) sul caso dei finanziamenti delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione mondiale della sanità destinati a iniziative e progetti contro il Covid-19, da attuare a Gaza e in Cisgiordania, che sono in realtà finiti nelle mani di ong che risultano colluse con organizzazioni che praticano il terrorismo: in particolar modo con il Fplp (Fronte popolare per la liberazione della Palestina). Tuttavia, seppure le immagini dell’ultima terribile strage di civili israeliani compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 avessero fatto annunciare, due giorni dopo, al commissario per l’Allargamento dell’Unione europea, Olivér Várhelyi, la sospensione immediata di circa 691 milioni di euro di finanziamenti destinati al governo palestinese, nella serata stessa l’Alto rappresentante per gli Affari esteri europei, Josep Borrell, ha dichiarato che nessun finanziamento al governo palestinese sarebbe stato sospeso.

Contestualmente non risulta chiaro quali possano essere gli effettivi benefici, per i civili palestinesi, derivanti dal boicottaggio delle attività israeliane in Cisgiordania. Pensiamo al noto boicottaggio della SodaStream, ovvero di quell’azienda che fabbrica dispositivi per produrre acqua frizzante in casa. Pensata come una sorta di start up della pace, la fabbrica aveva aperto i battenti in Cisgiordania assumendo principalmente operai palestinesi con stipendi analoghi a quelli pagati in Israele, circa quattro volte superiori alla media di quelli nei Territori. Nel 2014, con oltre 500 dipendenti, SodaStreamera diventata uno dei maggiori datori di lavoro privati in Cisgiordania. Tuttavia lo spietato boicottaggio internazionale da parte dei sostenitori della campagna Bds (per delegittimare Israele attraverso Boicottaggi, Disinvestimenti e Sanzioni) ha costretto l’azienda a chiudere i battenti in Cisgiordania per riaprirli in Israele, nel deserto del Negev: qui sono stati assunti 1.400 arabi beduini. L’unico evidente risultato ottenuto dai Bds è stato quello di privare i palestinesi di buoni posti di lavoro e di impedire uno slancio economico nei Territori.

Davvero l’odio che molti occidentali provano verso il popolo ebraico è tale da giustificare anche le sofferenze di quello palestinese? Greta Thunberg, paladina dell’ambientalismo, all’indomani della strage del 7 ottobre, ha affermato di stare dalla parte di Gaza, in definitiva dalla parte di Hamas. E l’ambiente è già dimenticato.

Le condizioni ambientali nei Territori sono infatti in continuo deterioramento. L’Autorità palestinese per la qualità dell’Ambiente è poco efficiente e la sensibilità individuale è pressoché nulla, ciò si traduce in carenza d’acqua, inquinamento atmosferico, incapacità di smaltimento dei rifiuti, nessuna politica rivolta all’implementazione del verde pubblico. Determinate scelte di protesta, come la cosiddetta intifada dei copertoni – una protesta organizzata ogni venerdì, tra aprile e maggio 2018, da gruppi di palestinesi che bruciarono, lungo il confine con Israele, oltre 12 mila copertoni d’auto e camion per creare una spessa coltre di fumo nero al fine di permettere infiltrazioni terroristiche – ha avuto ovviamente ampie ricadute anche sulla qualità dell’aria della Striscia, oltre che la risposta armata d’Israele contro i manifestanti. Eppure Gaza ha avuto un passato del tutto diverso: la sua vegetazione era rigogliosa, l’agricoltura era varia grazie al clima mediterraneo di cui gode e alla falda freatica in passato ricca d’acqua. Soltanto lo studio delle attività agricole degli insediamenti ebraici dell’epoca dell’occupazione israeliana ci permette di comprendere le potenzialità di quest’area, tornata in piena desertificazione dopo il 2005. Non si tratta qui di offrire un giudizio politico, ma semplicemente di osservare l’impatto ambientale della gestione di Hamas sul territorio e i costi della “non pace”. Lo stesso wadi Gaza ha subito un inesorabile, quanto recente, declino, trasformando l’area da ecosistema che accoglieva un’ampia varietà di specie di flora e di fauna – nel 2000 era stata dichiarata riserva naturale – a una delle regioni più degradate dell’area, minacciata dallo scarico di acque reflue e rifiuti solidi urbani che finiscono poi col gettarsi nel Mediterraneo.

Siamo certi di voler sostenere Hamas dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo come gridano, in questi giorni, le folle nei cortei del mondo occidentale? Siamo certi che sia questo il bene per la popolazione palestinese?

Una buona carta geografica

Scusatemi, ma non possiamo riuscire a orientarci senza una carta. Prendiamo una carta del Medioriente e cerchiamo Israele. Lo trovate? E’ davvero difficile tanto è piccolo. Ora cercate l’Iran. Più semplice da trovare, vero? Sì, perché l’Iran è 80 volte più grande d’Israele. Eppure si ipotizza che l’Iran sia uno dei registi che sta dietro all’attacco del 7 ottobre.

Qualcuno se ne è già dimenticato, ma il 7 ottobre Israele è stato colto alla sprovvista da un attacco su larga scala. Hamas ha lanciato oltre 5 mila razzi contro obiettivi civili e compiuto svariati blitz di terra infiltrando centinaia di terroristi e uccidendo più di 1.400 israeliani tra cui almeno 40 bambini, ferendone oltre 5.400 e prendendo almeno 224 ostaggi compresi neonati e ultraottantenni. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha affermato: “Era dai tempi della Shoah che non venivano assassinati così tanti ebrei in un giorno. Era dai tempi della Shoah che non si vedevano scene di donne, bambini e nonni ebrei, perfino alcuni sopravvissuti all’Olocausto, caricati su camion e deportati”. Le atrocità compiute lasciano poca immaginazione. Eppure già si parla di risposta non proporzionata da parte d’Israele. Tuttavia quale mai risposta può essere proporzionata e contestualmente efficace per evitare il ripetersi di pogrom efferati? Incredibile il fatto che, in nome di una presunta pace, soprattutto tra gli intellettuali ci sia chi chiede un immediato cessate il fuoco, brevemente accennando alla “brutale aggressione” di Hamas sulla popolazione “per lo più civile” e puntando il dito accusatore su Israele, definito come responsabile di 75 anni di “segregazione” etnica.

In primo luogo prendiamo una carta storica e verifichiamo le linee del cessate il fuoco al termine, nel 1949, della prima guerra che gli eserciti arabi avevano scatenato contro Israele. Non c’è nemmeno necessità di indossare gli occhiali “dell’altro”, basta indossare i propri per notare che i territori di West Bank e Striscia di Gaza erano in mani arabe. Anzi, persino una parte di Gerusalemme era sotto occupazione araba. Infatti con la conquista giordana di parte di Gerusalemme, i giordani conquistano anche la Città Vecchia e l’intero quartiere ebraico cacciando dalle loro case o uccidendo tutti gli abitanti ebrei che vi risiedevano e impedendo agli ebrei di visitare i loro luoghi santi (il Muro del Pianto, le sinagoghe), oltre che il cimitero ebraico e l’università. La situazione rimane tale sino al 1967. Che dire poi della situazione successiva al 1994 con i territori della “zona A” sotto totale controllo palestinese e quelli della “zona B” sotto controllo congiunto israelo-palestinese? Per non parlare della completa evacuazione della Striscia nel 2005. Insomma, i conti non tornano. Perché non applicare la stessa matematica al conteggio degli attentati palestinesi in Israele e all’estero? Abbiamo già dimenticato le Olimpiadi di Monaco 1972, l’attentato di Fiumicino nel 1973, il dirottamento e l’assassinio a bordo dell’Achille Lauro, gli attentati suicidi sui bus d’Israele, nei cinema, nei mercati, nelle discoteche, nei ristoranti?

Ma torniamo all’attualità e sgomberiamo il campo da ogni dubbio: i codardi di Hamas il 7 ottobre non hanno aggredito soldati nelle caserme. Hanno ucciso donne, bambini, neonati, sopravvissuti alla Shoah, hanno bruciato vive intere famiglie e compiuto atti indicibili persino su bambini di pochi anni prima di ucciderli. Hanno ucciso giovani pacifisti. Ebbene sì, il concerto di Supernova nel Negev non era un rave di drogati, era un concerto per la pace e l’amore universale. Li hanno inseguiti sparando, hanno torturato e violentato le ragazze, ne hanno ammazzati in quantità. E hanno rapito bambini (una trentina tra i 9 mesi e i 16 anni), ragazze, giovani, anziani, disabili. E’ stato un POGROM, come nella Russia zarista, con deportazioni come nella Seconda guerra mondiale da parte dei nazisti. Non soltanto una brutale aggressione. Un pogrom accompagnato dal lancio di 5.000 razzi in una sola giornata, che non si sono mai fermati. Anche ora, mentre scrivo, stanno sparando contro le città israeliane di Tel Aviv, Holon, Or Yehuda, Ashdod, Rehovot, Rishon le Zion e altre.

Perché in nessuno di questi appelli firmati da tanti intellettuali si chiede l’immediato rilascio degli ostaggi? Perché chi apparentemente lotta per i diritti umani ha un atteggiamento differente quando si tratta di ebrei? Perché non ci si rende conto che un cessate il fuoco avrebbe quale unica utilità quella di permettere ad Hamas – e non alla popolazione palestinese – di rifornirsi di armi, cibo, acqua, carburante? Hamas ha letteralmente costruito una città sotterranea, ma non esiste nemmeno un rifugio per i civili: perché i miliziani, che non si fanno scrupolo di sparare missili dalle scuole e dagli ospedali, non permettono ai civili di rifugiarsi nei tunnel che sorgono sotto Gaza? Tante domande destinate a rimanere senza risposte. E se nei primi giorni del 2009, a margine dell’Operazione Cast Lead, Haaretz (quotidiano di sinistra) scriveva: “L’alto tasso di perdite civili rispetto a quelle dei miliziani è dovuto alla scelta di Hamas di nascondere i propri combattenti nei quartieri civili anziché affrontare le truppe israeliane al di fuori di essi”, non diversamente sta accadendo in questi giorni, con il comando di Hamas asserragliato nei tunnel sotto l’ospedale di Al Shifa.

Pensiamo in ultimo ai motivi dell’attacco del 7 ottobre. Molti opinionisti televisivi suggeriscono si sia trattato di una reazione al governo di Netanyahu. No, ben difficile.

E’ certamente vero che, dopo le elezioni del novembre 2022, Israele ha varato il governo più religioso di sempre: dei cinque partiti della nuova coalizione, quattro sono infatti religiosi. Due di questi, Ebraismo unito per la Torah e lo Shas, sono partiti ultra-ortodossi che addirittura escludono le donne dalle loro liste elettorali. Il terzo e il quarto, Potere ebraico e Sionismo religioso, si sono presentati in coalizione, rappresentando entrambi i successori ideologici di Meir Kahane, fondatore del Kach, movimento messo fuori legge da Israele in quanto incitante al razzismo. Il quinto partito di governo è il Likud del premier Netanyahu. Che i partiti religiosi stessero accrescendo i loro consensi in Israele lo si è cominciato a notare già durante gli anni della pandemia di Covid-19. Nel mese di maggio del 2020, quando il bilancio delle vittime stava salendo tra le comunità ultraortodosse, le più indisciplinate e insofferenti nei confronti delle regole imposte dal governo, lo stesso ministro degli Interni e leader dello Shas, Rabbi Aryeh Deri, aveva dichiarato: “Dobbiamo fare un esame di coscienza molto profondo… Dio ci sta dicendo qualcosa”.

Per decodificare la pandemia da Covid-19, il rabbino Amnon Yitzhak aveva proposto di trattarla come un segno degli ultimi giorni, spiegando che il Messia non sarebbe venuto finché non fosse stato abbattuto l’impero del male che stava governando il mondo intero. Per il noto predicatore le misure di restrizione imposte alle persone durante la crisi del coronavirus erano da ricondursi a decisioni di potenze malvagie. Le decisioni del governo, come l’allontanamento sociale, le chiusure, le norme igieniche, vennero definite come leggi antiliberali e interpretate in termini di esegesi escatologica: il Messia stava per giungere.

Non intendo ovviamente dire che il risultato dell’ultima tornata elettorale in Israele possa essere letto soltanto alla luce del voto dei coloni religiosi o della pandemia, per certo si colloca all’interno di un movimento transnazionale più ampio. Non va neppure dimenticato che queste elezioni hanno avuto luogo in un periodo storico caratterizzato da una forte recrudescenza di attentati terroristici palestinesi che, da sempre, sospingono gli elettori verso le destre, ritenute in grado di offrire maggiore sicurezza. Tuttavia non possiamo neppure trascurare il ruolo svolto dal complottismo e dalle fake news che avevano ottenuto tanta risonanza anche in Israele. Un errore grave, di cui gli israeliani hanno preso coscienza subito dopo la formazione del nuovo governo, tanto che per ben 38 settimane, folle oceaniche sventolanti le bandiere azzurre e bianche con il Maghen David al centro si sono riversate in piazza ogni sera per le strade di Tel Aviv, di Gerusalemme, di Haifa e, al grido di “dittatore”, hanno denunciato come le riforme volute dal nuovo governo stessero minacciando la democrazia israeliana e segnando una crescente tendenza autoritaria. Ancora pochi giorni fa migliaia di israeliani, nonostante i continui razzi sparati da Hamas, sono tornati in piazza indirizzando i loro cori a Netanyahu e gridando: “Adesso vai in prigione”.

Pertanto se il problema per i palestinesi della Striscia fosse stato Netanyahu, ad Hamas sarebbe stato sufficiente attendere. In realtà qualcos’altro stava accadendo. Nell’ottobre 2023 Israele stava per siglare uno storico accordo di pace con l’Arabia Saudita. Per farlo, i sauditi avevano richiesto anche significative concessioni per i palestinesi. Ovviamente una situazione di questo genere, foriera di una pacificazione dell’area e, potenzialmente, favorevole a un ritorno sulla scena politica dell’Autorità palestinese di Abu Mazen non poteva essere accettata dalla strategia jihadista di Hamas. Così, la mattina del 7 ottobre, i miliziani di Hamas hanno optato per la strage più cruenta mai compiuta, potendo beneficiare di maggiori possibilità di spostamento tra la Striscia e Israele. Questo grazie a quello che era stato un consistente programma civile ed economico per Gaza da parte del precedente governo israeliano Bennett-Lapid. Infatti quel programma aveva notevolmente aumentato il numero di permessi di lavoro per i palestinesi di Gaza, che potevano così recarsi in Israele dove il salario giornaliero di un lavoratore è sufficiente a sostenere altre dieci persone e in un territorio impoverito con un tasso di disoccupazione di circa il 50 per cento, i permessi di lavoro in Israele stavano cominciando a migliorare la vita dei palestinesi della Striscia e a stabilizzarne l’economia. Il programma aveva introdotto anche incentivi economici per Hamas, se avesse mantenuto la pace: condurre attacchi avrebbe potuto comportare restrizioni immediate sui permessi e chiusure dei valichi di frontiera. Proprio quello che desiderava Hamas: il caos e la guerra. Una guerra deliberatamente scatenata contro i bambini, i giovani, le famiglie e gli anziani in Israele la cui unica colpa era quella di essere ebrei e che sta continuando a Gaza, mietendo vittime tra i bambini, le donne e gli anziani cui Hamas ha impedito di evacuare per evitare di morire sotto i bombardamenti israeliani.

Incredibile che soltanto pochissimi intellettuali, in occidente, si siano scandalizzati di fronte a un gruppo terroristico che non si fa scrupolo nel dichiarare di voler continuare a compiere altri attentati, come pochi giorni fa ha promesso un alto funzionario di Hamas – Razi Hamed – che in un’intervista riportata anche da Repubblica ha affermato: “Ripeteremo le azioni del 7 ottobre finché Israele non sarà distrutto”. Mentre Taher El-Nounou, consigliere di Hamas per i media, ha dichiarato al Times: “Spero che lo stato di guerra con Israele diventi permanente su tutti i confini e che il mondo arabo si schieri con noi”.

Gli orribili omicidi, torture, stupri, profanazioni di corpi e rapimenti di civili hanno rivelato la strategia di Hamas, così come quella di coloro che hanno celebrato, celebrano e giustificano a vario titolo il massacro nelle piazze, nelle università e nei salotti televisivi di mezzo mondo. Basti ricordare i cortei del 21 ottobre a Milano durante i quali venivano scanditi i cori: “Apriteci i confini, così possiamo uccidere gli ebrei” o l’assalto all’aereo proveniente da Tel Aviv e atterrato in Daghestan (Russia) del 29 ottobre. La cattiva informazione, le astute omissioni, il desiderio di sentirsi parte di un gruppo, un’immigrazione incontrollata e non integrata hanno portato in meno di un mese al triplicarsi degli atti di violenza antisemita in Austria, Germania e Regno Unito, come anche e soprattutto nelle università e nelle scuole americane. Non scandalizziamoci: è necessario studiare e formare generazioni di insegnanti, giornalisti, opinionisti consapevoli. Non ci si può nascondere dietro l’antisionismo per mascherare odio o ignoranza. Netanyahu si può criticare? Si deve. Ma il movimento di Hamas va fermato, a meno di voler essere complici. Perché è vero che la situazione israelo-palestinese da sempre provoca animosità, ma difficilmente ci si sofferma a pensare che i costi della non pace vengono pagati da entrambe le parti. Migliaia di persone stanno morendo a Gaza: intere famiglie sono state spazzate via. Gli attacchi aerei israeliani stanno riducendo i quartieri palestinesi a distese di macerie, ma per Hamas questo è un prezzo equo da pagare per la distruzione d’Israele. Siamo davvero certi che questo prezzo il popolo palestinese lo voglia pagare?

Quanto a me, ai tanti che me lo chiedono, non posso che ribadire quanto ho scritto pochi giorni fa: per certo non voglio la cancellazione del popolo palestinese, ma non voglio neppure la cancellazione del popolo d’Israele. Vorrei la fine del regime di Hamas e un futuro sicuro e di pace per palestinesi e israeliani. Mi piacerebbe che ci lavorassimo tutti insieme.

(DI DANIELA SANTUS, IL FOGLIO 13 NOVEMBRE 2023)

Pubblico questo articolo della Professoressa Santus per la sua comprensione dei fatti, la lucida esposizione, il coraggio dell’intelligenza a fronte di molti suoi sciagurati colleghi che fomentano le piazze contro Israele. Daniela Santus è docente di Geografia culturale e di Geografia dei paesi mediterranei presso il Dipartimento di Lingue e Letterature straniere e Culture moderne dell’Università di Torino. Si interessa di geografia della religione e di geopolitica mediorientale. Dopo il 7 ottobre è stata oggetto di contestazione antisemita e, tranne rari casi, lasciata sola dai suoi colleghi.

J.V.

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