Cataluccio 
Cataluccio
Francesco Cataluccio viveva a Firenze, arrivava in aula a Genova alle otto del mattino e spiegava a mitraglia, senza interruzione per due ore, seguendo le sue paginette fitte di appunti. Era un vulcano e tutti lo amavamo perché capivamo di avere di fronte un uomo saggio, colto, di buon senso. Non ha mai fatto politica direttamente eppure che grande lezione ci ha impartito! La politica si fa spiegando la storia. Se penso alla triste realtà presente infarcita di raccomandati del politicume che si atteggiano a luminari. Francesco Cataluccio non era un barone. Pur avendo allevato intere generazioni di storici, a quasi settantanni era ancora professore associato. Hanno dovuto farlo passare ordinario a forza. Era sempre disponibile a ricevere gli studenti, a parlare seriamente con loro, rifiutando – uno dei pochi – di civettare con gli sciagurati che pretendevano il voto politico. Un giorno disse ad un gruppo di tali poveretti:- perché volete laurearvi per fare la rivoluzione? Lenin non era laureato… e neanche Benedetto Croce-. I disgraziati restarono a bocca aperta e se ne andarono.
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Ecco come lo descrive Turi Valenti, suo amico e compaesano di Floridia:- È grazie alla sua grande disponibilità verso chi gli “fa buona impressione” che le distanze si accorciano, gli incontri si fecondano e le idee e le esperienze si scambiano. Nelle sue scelte s’affida al fiuto, sensibilissimo, come un cane tartufaio: fra una voluta e l’altra di fumo della sua ennesima sigaretta ti ascolta come mai desidereresti essere ascoltato, senza distrazioni, cerca di coglierti le sfumature meno visibili, va oltre le tue parole, ti soppesa in silenzio, t’inquadra come uno che, invece, non s’affida alle sole impressioni. Ha il dono dell’ascolto sapiente e paziente, così raro nell’umanità delle nostra contrade dove ti senti inevitabilmente contrapporre un “io” ossessivo, specioso e incalzante. Preferisce l’umanità semplice, rifiuta il contorto e l’artificioso, evita con elegante diplomazia l’intellettuale libresco, chi la pensa col cervello degli altri, il rapsoda. Un suo ideale d’uomo è il contadino: “Io ho il massimo rispetto per il contadino, lo tengo in grande considerazione”. E non di rado trovi “il professore” in una panchina dei giardini pubblici floridiani alle prese con due o tre artigiani o contadini che appassionatamente la raccontano a lui in ascolto: cose d’altri tempi, fatti personali, storie d’altri. Ma ne teme l’invadenza, la sospetta come possibile intrusione nella sua area privata per il timore di doverne modificare, anche se di poco, gl’immutabili schemi. Qui troviamo la sua zona sacra: sacerdote del quotidiano, ogni atto della sua giornata è un rito da celebrare osservandone scrupolosamente le regole che si è imposto: l’ora, il minuto, i luoghi, i gesti, le cose. Quasi per paradosso, si può credere che Cataluccio abbia sistemato anche la morte, per dirla col poeta Vincenzo Cardarelli, “come l’estrema delle abitudini”. Ogni volta mi ha sorriso compiaciuto nel ricordare che Immanuel Kant faceva regolare gli orologi agli abitanti di Königsberg al suo cronometrico passaggio dalle vie che percorreva nelle quotidiane camminate. L’esigenza della puntualità per sé e per gli altri – racconta lui stesso – gli fece piantare in asso Giovanni Spadolini in ritardo di alcuni minuti, “per impegni politici”, in un appuntamento a Roma.
   È un patito del paesaggio e della natura. Sono visibili le sue emozioni davanti alla campagna siciliana, che, per quanto aspra, assume una visione dolce e struggente attraverso il suo amoroso filtro crepuscolare, influenzato anche da simpatie a un genere di cultura figurativa paesaggistica del “Novecento”. Oserei dire che, in fondo, è un romantico nei suoi gusti artistici come in poesia; accoglie, d’altro canto, con incondizionato entusiasmo il realismo epico in letteratura; indulge, da marxista, a una concezione crociana della storia. E sarebbe interessante per uno specialista indagare come in lui si conciliino Marx e Croce, senza magari perdere di vista la posizione di N. Rodolico, suo maestro, assunta nei confronti del marxismo e dell’idealismo. Ma Cataluccio ha in odio etichette, schematizzazioni, inquadramenti.”
Nuove questioni marzorati
Ecco un maestro: serio e romantico, non conformista, vicino agli studenti, ma severo quanto basta e, soprattutto ha in odio etichette, schematizzazioni, inquadramenti. Poco prima della sua morte ho avuto la fortuna  di accompagnarlo  assieme a Claudio Costantini in automobile da Genova a Firenze, dopo aver celebrato il 25 aprile. Parlammo di Puccini e del grande Torino, di Matthias Sindelar e di Eusebio Castigliano. Persino Claudio, indifferente al calcio, annuiva compiaciuto. Non l’avrei più rivisto. Morirà  più che novantenne qualche tempo dopo. Ho sempre tenuto ferma la sua lezione aristocratica. Soltanto chi ha una concezione aristocratica della società può giungere davvero ad una reale e compiuta democrazia. La democrazia è faticosa, dura, estenuante e necessita di una classe dirigente colta e davvero democratica, quindi aristocratica. Avviso ai democratici-a-un-tanto-al-chilo-politicamente-corretti: parlo di aristocrazia dell’animo, culturale, morale, estetica. La democrazia materiale o passa da lì o non passa. Coniugatasi con la società di massa la democrazia diviene un’abitudine e le abitudini sono pericolose perché si perde la memoria di quanto costò la libertà. Quando la democrazia si misura soltanto con la mediocrità diviene volgare e patrimonio dei peggiori. L’unico antidoto è un sano atteggiamento culturalmente aristocratico come quello del professor Cataluccio.
J.V.

This article has 1 comments

  1. pedrop61@libero.it

    Ho letto una volta che Pericle, illustre esempio portato dalla Storia di uomo politico nella democrazia ateniese, in realtà fosse persona spregiudicata e priva di scrupoli pur di alimentare il suo tornaconto personale fatto di potere, di egemonia sugli avversari e forse anche di affari, non sempre per nobili ragioni. In questi anni mi sono fatto l’idea che la democrazia parlamentare, proprio per i meccanismi di scelta dei rappresentanti, finisca alla lunga per far prevalere malaffare e clientelismo, quest’ultima parola ereditata dai romani, i quali facevano funzionare la loro democrazia senatoriale con la concessione di piccoli o grandi favori ad amici o semplici asserviti. Questa prassi la troviamo abbondantemente rappresentata nell’amministrazione del potere democristiano in genere e andreottiano in particolare. La possibilità che un candidato emerga finisce inevitabilmente per passare attraverso la promessa di piccole o grandi concessioni, sia che si tratti del sindaco di Barbagelata: magari rivedendo i piani regolatori e trasformando il terreno agricolo in edificabile, sia che si tratti del vecchio senatore dirozzato alla politica.
    Passata una prima fase di affermazione di un sistema democratico, tenuto in vita dalle stesse spinte ideali che ne hanno determinato l’affermazione, gradualmente l’abitudine genera degrado e malapolitica. Quella di cui sto parlando è la storia ormai non più recente di questo paese.
    Meglio una dittatura fatta di uomini probi allora? Sinceramente non saprei proprio, anzi credo di no. Credo che l’avidità e l’ambizione di potere finiscano per far prevalere proprio i meno probi e i peggiori anche in una dittatura. Solo che, in questo secondo caso, non potremmo votare per mandarli a casa.
    Forse sarebbe da considerare il sistema democratico Finlandese dove i rappresentanti vengono nominati in base a sorteggio.

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