ALCUNI COCCODRILLI SU MAURIZIO COSTANZO

ALCUNI COCCODRILLI SU MAURIZIO COSTANZO

Costanzo, il prototipo del generalista

E’ stato un grande uomo di potere, un cacciatore di pubblico che coltivò con accanimento, dedicandogli vita passione perdite profitti e il cinismo ironico di una medietà che diventerà leggenda

Pochi in tv accettano di parlare a pochi. Pochi considerano occasionali e benvenute, da festeggiare ma non indispensabili, le grandi fette di share dell’Auditel. Pochi credono o hanno creduto che la tv sia la continuazione di politica e cultura con altri mezzi, e che senza rispetto per le idee e per la loro elaborazione più o meno compiuta, politica e cultura scompaiono dalla conversazione su schermo, e con esse l’etica del mestiere, per lasciare spazio solo agli “altri mezzi”. Maurizio Costanzo era il prototipo del generalista, era un accanito cacciatore di pubblico, a ogni costo, e lo aveva trovato, lo ha coltivato con accanimento, dedicandogli vita passione perdite profitti e il cinismo ironico di una medietà che diventerà leggendaria e coinvolgerà prima o poi praticamente tutti, con rarissime eccezioni. La tv del dolore, dell’antimafia, delle pailettes e degli urlatori rissosi era il sostrato inamovibile della sua ambizione televisiva, la cattura chiesastica, ripetitiva come la messa frequente, senza scampo, una sorta di 41-bis o di oppio del popolo, dello spettatore medio, al quale andava rivolto un discorso medio per fare una buona media d’ascolto.

Nella storia personale complicata e interessante di questo colosso dell’ovvio, impiccato per un momento al banale errore della P2 ma destinato a un rapido rientro tra le luci del palcoscenico, e a una riabilitazione e celebrazione che si annuncia corale e generalista come la sua arte, la sua tecnica, la sua maliziosa capacità di capire gli italiani, spicca un conflitto apparente tra l’intellettuale flaianeo, il romano di estremo talento che ha piluccato tra il meglio del cinema sceneggiato, il teatrante d’istinto che si guarda bene dall’avanspettacolo, e il re del tinello che considera caciocavalli appesi gli schemi mentali fissi, solidi, logici, non senza un implicito tributo alla duttilità intellettuale di un grande italiano anche nazionalpopolare come Croce, preferendo loro il chiacchiericcio rivelatore, il gioco delle maschere, l’arbitrato di ogni sera all’insegna del plebiscito dell’ascolto medio e dei suoi picchi. Non era volgare né ignorante, non avrebbe mai voluto qualificarsi per eleganza e cultura, mica scemo.

Fu un grande uomo di potere nella comunicazione e i suoi fallimenti come il quotidiano giallo rizzoliano, come le tante cadute di gusto tipiche degli uomini che non si rassegnano alla egemonia un po’ vieta di questo talento bellurioso di principi e mezze calzette appaiati, nulla tolgono alla formidabile costruzione di fatica, di lavoro incessante, di ossessione e gloria serale del suo percorso. Il suo era un potere sedentario, ironia e curiosità erano da poltrona o da divano, a cortissimo e sapienziale raggio, precisamente quelle dei suoi fanatici spettatori seriali, meno scettici di lui ma educati da lui a un punto di scetticismo che è la sua vera lezione finale. Il suo potere era l’ancoraggio tra il quartiere di Prati e il Teatro Parioli, con rapidi e rari spostamenti a Ansedonia, e la misura della sua influenza era il misto di sterminata quantità e infinita durata che nutriva la cifra immobilista del migliore e del peggiore talk-show. A una cena con il compianto Cossiga, dal grande Jannuzzi, in via Petrella dietro piazza Ungheria, una sera si udì un bum tremendo, sinistro, che poi si scoprì come l’attentato mafioso di via Ruggero Fauro ai danni della sua Mercedes scampata all’eccidio per un soffio. Quel bum non ne fece un eroe, per sua volontà coriacea, per sua malizia, per una certa sua decenza che considerava intuitiva la necessità di relativizzare. Sembrava dire, lasciate stare, un attentato, per di più fallito, è un’altra crocchetta da masticare per denti scettici, e lo scetticismo è la mia dentatura, sebbene abbia corso un rischio mortale. Alla giovane promessa mediatica, lui che non poteva evitare la fase del solito stronzo né quella finale, così poco a lui somigliante, del venerato maestro, consigliò di fare come lui di fronte alla blandizie e all’invidia di quel mondo e di tutti i mondi: “Fa’ come facevo io. Dopo ‘Bontà loro’, dopo l’esplosione del successo, mi aggiravo negli studi della Rai e non la finivo di lamentare un gran mal di testa, cercavo comprensione e compassione”. Alla fine ha ottenuto decisamente di più, che non sarà un memorabile salotto Rambouillet, ma è quello che voleva e che meritava la sua perizia indiscussa nell’inquadrare l’uomo comune e nel farsi inquadrare da lui come fratello ipocrita in carne e ossa.
(DI GIULIANO FERRARA)

Lo stregone del talk

La grande alchimia del “MCS”: riuscire a mettere insieme trash e tv impegnata

Si dice che i cinepanettoni abbiano raccontato con precisione chirurgica le trasformazioni dell’Italia degli anni Ottanta. Maurizio Costanzo ha fatto di meglio. Quell’Italia l’ha plasmata, l’ha creata, se l’è inventata sera dopo sera nel salottino del “Teatro Parioli in Roma”, come diceva la voce dello speaker, con gran solennità, prima d’ogni puntata.

Sin lì conosciuto solo agli abitanti di zona, e forse neanche a loro, il Parioli diventava ogni sera “La Scala” della tv italiana. La ribalta del paese. La “quarta Camera”, diceva scherzando Costanzo, dopo la terza di “Porta a porta”. Ma era molto di più. Il “Maurizio Costanzo Show” non è stato solo il nostro “late night” americano, prima che internet ci portasse in casa gli show della Nbc e della Cbs, ma un Grande Romanzo Italiano. Quello che letteratura, cinema, teatro avevano smesso di darci da un pezzo. Difficile non riconoscere, per esempio, che l’“Uno contro tutti” di Carmelo Bene resta agli atti come vetta dell’arte contemporanea, installazione vivente, happening. Il miglior trattato mai scritto sulla “società dello spettacolo”. Invece di leggerti Debord, dico sempre, guardati Carmelo Bene da Costanzo. Un libro sull’Italia di quegli anni, invece, dovrebbe intitolarsi, “La sera guardavamo il Maurizio Costanzo Show”. Aspettavamo le undici o anche mezzanotte per una seconda serata che era meglio della prima (Costanzo, tra i primi, intuisce le straordinarie possibilità della dilatazione del palinsesto). Il “Costanzo Show” era un appuntamento fisso. Il segno che Canale 5 era avanti anni luce su una Rai che, Arbore a parte, era ancora ingessata, pesante, incapace di stare al passo con un paese che in quel momento andava a mille. Costanzo invece aveva la flemma giusta. Lasciava fare con una lentezza deliberata che poi passerà a Maria De Filippi, accovacciata sugli scalini di “Uomini e donne”. Non erano vere interviste le sue, ma sedute di autocoscienza collettiva. Si lanciava un tema, quel tema diventava qualcos’altro, si andava fuori tema, si litigava, si incassavano buuuh, fischi o applausi. Come oggi su Twitter. Ma dal vivo, a teatro, mentre Costanzo si lisciava i baffi. Nel “Costanzo Show” c’era tutto: il trash e l’impegno civile, i premi Nobel e la cattiva letteratura, le sciampiste, l’antimafia, l’avanguardia teatrale, la tv del dolore, Sgarbi e D’Agostino, Falcone e Platinette, Sora Lella e la Franzoni, che, mi pare di ricordare, non spiccicò parola o quasi. Piangeva e basta. Il “Costanzo Show” è stato poi anche un formidabile incubatore del populismo. La platea che si prendeva sempre più spazio. Il teatro che sconfinava in assemblea d’istituto, le domande sempre più inferocite, la ribellione del Parioli. Se ne ricorda Paolo Virzì quando in “Caterina va in città” manda il prototipo del grillino che verrà, Giancarlo Iacovoni, a inseguire il suo quarto d’ora di celebrità anticasta proprio al “Costanzo Show”. Con “Bontà loro”, Maurizio Costanzo fu il primo a inventarsi il talk-show all’italiana, così come lo conosciamo oggi. Il primo a mettere insieme un presidente del Consiglio, un press agent e una balia nello stesso salottino televisivo (il presidente era Giulio Andreotti, la balia asciutta Giovanna Mizzoni, il press agent Enrico Lucherini). Ma è col “Maurizio Costanzo Show” che trova il punto di fusione perfetto. L’equazione tra tv e antropologia italiana. E’ Maurizio Costanzo che finisce per assomigliare al suo programma, non viceversa. Il “Costanzo Show” come un’opera mondo. Un’epica postmoderna, proprio come lui. Capace di passare con identico aplomb dalla prima stesura dello script del “Salò” di Pasolini, alle chiappe sculettanti di “Buona domenica”. Uno stregone inarrivabile.
(DI ANDREA MINUZ)

I due ”coccodrilli” di Ferrara e Muniz esprimono molto bene ciò che penso di Maurizio Costanzo e quindi devo aggiungere poco. Ricordo mio padre, duro ateo stalinista, e mia madre, cattolica socialista ricca di buon senso e umanità, schierati a tarda sera davanti al televisore per assistere al MCS. Li prendevo in giro con inconsapevole supponenza mentre uscivo per fare le ore piccole con i miei quattro amici al bar per cambiare il mondo. Il mondo lo abbiamo cambiato poco e probabilmente in peggio. Bere, abbiam bevuto molto e bene. I miei genitori apprezzavano l’ironia di Costanzo, lo sentivano come uno di famiglia. Allora non li capivo, oggi sì. Era un uomo talentuoso con grandi pregi e notevoli difetti. Era un uomo del nostro tempo, con le sue contraddizioni. Lo specchio del Paese. Non gli mancava il coraggio e conosceva alla perfezione i meccanismi della comunicazione. È vero ciò che dicono alcuni: le sue trasmissioni sono state l’incubatrice del populismo. Giusto. Mi permetto di aggiungere che lui il populismo lo ha descritto più che favorirlo. Era troppo scettico, intelligente e scafato per avere un elevato grado di compattezza con l’essere. Probabilmente comprendeva ciò che “il popolo” davvero vuole e serviva il piatto pronto. Sceneggiatore di buon livello, autore di testi famosi, uomo di potere vero, interprete sontuoso della società italiana degli ultimi cinquant’anni. Questo fu…

J.V.

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