TERRORISMO ITALIANO, DI GIOVANNI BIANCONI

TERRORISMO ITALIANO, DI GIOVANNI BIANCONI

Con un testo di Edoardo Albinati

Treccani

“Oltre 350 morti e più di 1000 feriti: è il bilancio delle vittime del terrorismo italiano. Le radici di questo capitolo sanguinoso della nostra storia affondano nelle fratture createsi negli equilibri politici del nostro paese fin dalla fondazione della Repubblica e sviluppatasi in un crescendo di attentati che culminarono, il 12 dicembre del 1969, nella drammatica strage di piazza Fontana. Ma era solo l’inizio: seguirono altre stragi, altri delitti, la nascita delle BR, il sequestro e l’omicidio di Aldo moro… la storia è conclusa ma l’Italia fatica a scrivere la parola fine.”

Così è scritto nella quarta di copertina del libro ed in effetti la parola fine non riusciamo ancora oggi a scriverla. Ciò che risulta chiaro a distanza di molti anni è che i gruppi armati comunisti sembravano pervasi da una volontà di potenza irrazionale sia pur ammantata dalla prosa marxista leninista. In questa storia abbiamo carnefici, vittime, spettatori, traditori… Anzi il traditore è la figura più complessa e intrigante del repertorio romanzesco. Nel suo delirio di onnipotenza il tribunale dei brigatisti stabiliva chi fossero i fedeli e chi fossero i traditori, su chi si dovesse esercitare vendetta attraverso l’uso della forza e di una dissennata violenza. Ci furono complicità pudicamente giustificate da una certa aura romantica e salvifica che circondava i terroristi in alcuni ambienti intellettuali di sinistra soprattutto in Francia grazie alla dottrina Mitterrand. E poi il feroce terrorismo nero. Tra la primavera e l’estate del 1969 vengono messi in atto una serie di attentati contro banche, treni e altri obiettivi simbolici. Attentati organizzati e compiuti dalla cellula veneta di Ordine Nuovo, responsabile anche della bomba che il 12 dicembre 1969 uccide diciassette persone alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano. Uno spartiacque della storia d’italia, soprattutto per iI depistaggio e le coperture istituzionali garantite ai responsabili. Per anni le indagini sono indirizzate verso i gruppi anarchici, con prove fasulle costruite appositamente dai servizi. Sin dall’inizio viene arrestato Pietro Valpreda con l’accusa di strage e la prima sentenza assolutoria arriverà soltanto dopo 10 anni dopo nel 1979. A tre giorni dall’esplosione precipita da una finestra del quarto piano della questura di Milano l’anarchico Giuseppe Pinelli trattenuto oltre i limiti concessi dalla legge. La polizia parla di suicidio di fronte agli indizi emersi a suo carico per la strage ma anche questo è un depistaggio come scriverà in seguito all’istruttoria il giudice Gerardo d’Ambrosio. La sinistra extraparlamentare parla apertamente e convintamente di omicidio.

Il 17 maggio 1972 a Milano viene assassinato il commissario Luigi Calabresi, additato dalla sinistra extraparlamentare come il principale responsabile della morte dell’anarchico, malgrado gli accertamenti dei magistrati lo avessero completamente scagionato. Per quel delitto, rimasto misterioso e impunito per anni, vengono condannati nel 1997 alcuni militanti e dirigenti di lotta continua. Tutti rivendicano la propria innocenza tranne il pentito che chiama in causa se stesso e gli altri. L’omicidio Calabresi viene considerato un atto di preteso giustizialismo proletario e segna una tappa importante nella storia del terrorismo perché dimostra la disponibilità all’omicidio politico in taluni ambienti della sinistra rivoluzionaria. Su questa disponibilità le brigate rosse potranno contare per il reclutamento. All’interno della mentalità insurrezionale dell’epoca si inserisce la morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, probabilmente rimasto ucciso nel tentativo di far saltare un traliccio elettrico a Segrate. I suoi gruppi di azione partigiana volevano essere una risposta al temuto colpo di Stato della destra di cui la strage del 12 dicembre doveva costituire la premessa. Gli intrecci tra eversione nera e apparati statali emergono in modo chiaro in tutti i procedimenti giudiziari sugli attentati di matrice neofascista avvenuti dal 1969 al 1974, anno in cui si consumano le stragi di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio, otto morti e 102 feriti) e sul treno Italicus nella galleria di San Benedetto Val di Sambro (4 agosto, 12 morti 48 feriti). Emblematico resta il caso di Piazza Fontana, in cui la responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura, che poterono tranquillamente evadere dal soggiorno obbligato mentre era in corso il processo a loro carico, sono state confermate da una sentenza pronunciata soltanto dopo che la loro assoluzione era divenuta definitiva e quindi irrevocabile grazie all’inquinamento e agli intralci istituzionali frapposti nelle precedenti indagini e processi. Anche per questo motivo nascono i primi gruppi armati da cui prende le mosse la lunga stagione del terrorismo italiano di ispirazione comunista. Non esiste un vero e proprio atto di fondazione delle brigate rosse ma di fatto prendono forma nel 1970 dopo un convegno che si svolse durante l’estate a Pecorile in provincia di Reggio Emilia. Si ritrovarono gli esponenti di diversi gruppi extraparlamentari che da tempo pensavano alla lotta armata sull’onda di ciò che era avvenuto in Vietnam e a Cuba. La prima azione eclatante rivendicata delle BR risale al 26 gennaio 1971 quando otto bombe incendiarie vengono fatte esplodere sotto gli autotreni parcheggiati sulla pista di Lainate. Nel comunicato diffuso a marzo compare per la prima volta il nome Brigate Rosse. Un anno dopo, il 3 marzo 1972, avviene il sequestro lampo del dirigente della Sit Siemens Idalgo Macchiarini. Come dirà Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle BR, i terroristi volevano proseguire la rivoluzione interrotta dopo la liberazione. La sera del 18 aprile 1974 a Genova, nel pieno della campagna per il referendum sul divorzio, viene rapito il sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, pubblico ministero nel processo contro il gruppo anarchico-comunista XXII Ottobre. Si alza così il livello di scontro, dalle fabbriche alle istituzioni. Sossi sarà rilasciato il 23 maggio 1974 nell’attesa che altrettanto avvenga con gli otto detenuti della XXII Ottobre a cui la corte d’appello di Genova concede la libertà provvisoria. Contro il provvedimento fa ricorso in Cassazione il procuratore generale di Genova Francesco Coco che blocca le scarcerazione. Per questo motivo due anni più tardi, l’8 giugno 1976, Coco verrà assassinato delle BR in un agguato dove perderanno la vita anche il brigadiere di pubblica sicurezza Giovanni Saponara e l’appuntato dei carabinieri Antioco Deiana. Da questo momento gli omicidi divengono, insieme ai ferimenti, prassi costante delle BR e degli altri gruppi armati. Oltre alle istituzioni i brigatisti decidono di prendere di mira i partiti e in particolare quello indicato come il partito-Stato vale a dire la Democrazia cristiana. La campagna contro la DC arriva al suo culmine con il rapimento del presidente del consiglio nazionale del partito Aldo Moro il 16 marzo 1978. La mattina stessa del 16 marzo i comunisti entrano in una maggioranza di unità nazionale che dovrebbe aprire la cosiddetta terza fase della politica italiana dopo quella centrista del centro sinistra con la legittimazione del partito comunista italiano giunto a raccogliere oltre il 34% dei consensi alle elezioni del 1976 e governare in alternativa alla DC. Proprio il sequestro Moro indirizza questa prospettiva sul binario morto perché inizia la linea della fermezza del governo guidato da Giulio Andreotti, linea adottata da DC e PCI per diverse ma convergenti ragioni. Una linea fortemente contestata dallo stesso Aldo Moro negli scritti diffusi durante e dopo la sua prigionia e che contribuirà a far eseguire la condanna morte dell’ostaggio decretata dai brigatisti. Ormai era chiaro a tutti che le BR appartenevano alla tradizione comunista al punto che Rossana Rossanda scriverà sul “il manifesto” nel famoso articolo sull’album di famiglia “in verità, chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle brigate rosse. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria“.

Il cadavere di Aldo moro viene consegnato dagli assassini la mattina del 9 maggio 1978 all’interno del bagagliaio dell’auto rubata parcheggiata in via Michelangelo Caetani, a pochi passi di distanza dalle sedi della DC e del PCI. Un luogo scelto simbolicamente in spregio al potere costituito. Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro segnano il principio della fine delle BR. Il 24 gennaio 1979 i brigatisti uccidono a Genova l’operaio sindacalista comunista Guido Rossa che aveva denunciato un compagno di fabbrica aderente al partito armato seguendo i dettami della propria coscienza nonché le indicazioni del partito comunista guidato da Enrico Berlinguer. L’assassinio di un operaio bollato come berlingueriano e traditore della classe operaia sarà per le BR un errore strategico e ne decreterà di fatto la distruzione. A Torino nel 1980 i carabinieri del nucleo speciale guidato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa catturano Patrizio Peci, capo della colonna torinese, il quale decide di collaborare e fornisce indicazione di una base genovese dove i carabinieri intervengono. Un maresciallo viene ferito e quattro brigatisti, Riccardo Dura, Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa e Piero Pancelli vengono uccisi all’interno dell’appartamento. È la strage di via Fracchia, consumatasi il 28 marzo 1980. Due mesi più tardi, il 28 maggio dello stesso anno verrà assassinato il giornalista Walter Tobagi, reo di aver descritto in modo negativo la giornata del 28 maggio. Tre giorni dopo la strage di via Fracchia, il 1 aprile 1980, Patrizio Peci detta a verbale davanti a tre magistrati “nel momento del mio arresto ho valutato con più calma e più serenamente il mio trascorso nell’organizzazione clandestina… L’entusiasmo che mi aveva portato a combattere per la classe operaia mi aveva fatto perdere il termometro del consenso della classe operaia stessa… Non riuscivo a vedere che di fatto la nostra lotta, seppure in buona fede veniva a essere una guerra per bande tra noi delle BR e lo Stato… Di fatto ho raggiunto la convinzione che la nostra lotta, la lotta delle BR e più in generale la lotta armata, porta solo danno alla classe operaia“.

Le rivelazioni di Patrizio Pecci e le leggi premiali nel 1982 che incentivano la collaborazione dei brigatisti attraverso ingenti sconti di pena in cambio di confessioni e accuse verso gli ex compagni determina una slavina che indebolisce e travolge il partito armato. Il regime carcerario sarà molto aspro per i terroristi e contro le carceri speciali le brigate rosse uccidono uno dei principali collaboratori del generale Dalla Chiesa, il generale Enrico Galvaligi, asassinato a Roma il 31 dicembre 1980. Nel giugno 1981 viene sequestrato e assassinato, al termine di un “processo proletario“, Roberto Peci, fratello del pentito Patrizio. Nello stesso periodo il cosiddetto partito guerriglia gestisce il sequestro dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, rapito il 27 aprile 1981 a Torre del Greco. Questa volta lo Stato tratta e grazie ai “buoni uffici“ del boss della camorra Raffaele Cutolo l’assessore viene liberato. Come si può vedere un atteggiamento completamente diverso da quello tenuto nel caso Moro a soli tre anni di distanza e che ancora oggi lascia aperti dubbi e misteri. A dicembre il partito comunista combattente rapisce il generale statunitense di stanza in Italia James Lee Dozier che sarà liberato il 28 gennaio da un blitz dei Nocs. Due mesi più tardi le brigate rosse-partito comunista combattente diffondono un comunicato nel quale annunciano la ritirata strategica. Inizia la strada della dissociazione. A partire dal 1983 vengono presentati da parlamentari della sinistra disegni di legge che prevedono benefici e sconti di pena per chi abbandona la lotta armata. Ugo Pecchioli, considerato il ministro dell’interno del partito comunista italiano, primo firmatario di una proposta sulla dissociazione scrive questa premessa “non vi è dubbio che la suggestione della contestazione violenta e della scelta eversiva nei confronti del sistema democratico abbia avuto grande presa su importanti componenti giovanili della nostra società, che avrebbero potuto svolgere in esso un ruolo potenzialmente positivo se, in forza di ideologie confuse e di fini velleitari, non avessero deviato verso esiti sciagurati. Senza voler attenuare responsabilità individuali e collettive, non può negarsi che abbiano in qualche modo contribuito alla nascita del terrorismo da un lato l’abdicazione da parte dello Stato al dovere di dare alle giovani generazioni un’educazione adeguata ai principi della democrazia e una conoscenza qualificata delle sue origini storiche, dall’altro le insufficienze e le ingiustizie presenti nel nostro sistema“. Resterà incompiuto il dibattito sulla soluzione politica per i detenuti che non hanno ritenuto di collaborare con i magistrati né di aderire all’abiura richiesta per ottenere i vantaggi della dissociazione, accettando soltanto di dichiararsi sconfitti e cessando le ostilità. Non esistendo un riconoscimento politico lo Stato ha lasciato ai magistrati il compito di individuare le possibili soluzioni giudiziarie e quindi inevitabilmente individuali e non collettive. Una scelta che ha consentito di non affrontare sino in fondo le cause politiche e istituzionali del terrorismo italiano.

Per quanto riguarda il terrorismo nero degli anni 70 nascono diverse sigle tra le quali spicca quella dei gruppi armati rivoluzionari, qualche decina di ragazzi che tra il 1978 e il 1982 uccidono altre 30 persone. Non soltanto avversari politici, militanti dell’estrema sinistra, ma pure magistrati, poliziotti e carabinieri, con l’obiettivo dichiarato di smarcarsi rispetto alla precedente generazione di neofascisti di cui emergevano le collusioni con gli apparati di sicurezza. Vittima dei NAR il sostituto procuratore della Repubblica di Roma Mario Amato, colpevolmente lasciato solo ed esposto alla vendetta dei suoi inquisiti. Il 23 giugno 1980 Mario Amato viene ucciso alla fermata dell’autobus.

In questo contesto resta l’incognita della strage di Bologna, consumata il 2 agosto 1980, quando alla stazione del capoluogo emiliano esplode una bomba che uccide 85 persone e ne ferisce oltre 200. i processi, seppur con verdetti altalenanti, hanno dichiarato colpevoli i quattro militanti dei NAR (tre con sentenza definitiva: Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini). Nonostante le sentenze i condannati continuano a proclamare la propria innocenza.

Gli ultimi fuochi del terrorismo rosso vedono come bersaglio i cosiddetti tecnici, da Gino Giugni a Ezio Tarantelli, da Lando Conti a Roberto Ruffilli. Nel biennio 1988/89 le brigate rosse vengono smantellate completamente. La guerra è finita. Degli oltre 4000 inquisiti per reati legati alle attività delle diverse bande armate di sinistra circa 300 trovano rifugio in Francia grazie alla dottrina Mitterrand. Massimo D’Antona, Marco Biagi ed Emanuele Petri sono gli ultimi nomi di un elenco di oltre 350 morti e più di 1000 feriti, vittime del terrorismo italiano rosso e nero. Una storia tragica e demoniaca sulla quale il nostro paese fatica a scrivere la parola fine.

J.V.

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