Lo sterminio degli ebrei e la voglia dimenticare. Capitolo 1.1

Capitolo primo

Gli ebrei

Vattene dalla tua terra, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre verso la terra che ti mostrerò

(Genesi 12, 1) 

1.1. Chi sono gli ebrei?

         Chi sono gli ebrei? Il problema dell’identità ebraica sarebbe questione astratta se non esistesse la concreta “questione ebraica”, la Judenfrage. La definizione dell’identità ebraica è stata importante anche per coloro, i nazisti, che hanno tentato di porre fine all’esistenza del popolo ebraico e che proprio per questo dovevano distinguere gli ebrei dagli altri. Si può anzi dire che per molti versi, gli ebrei sono un prodotto dell’antisemitismo. Quest’affermazione può sembrare paradossale, perché di solito l’antisemitismo viene considerato come un effetto dell’esistenza degli ebrei. In realtà il rapporto va invertito. Tanto è vero che se è possibile rispondere alla domanda chi sono gli ebrei?, non è forse possibile rispondere alla domanda che cosa è un ebreo, cosa distingue un ebreo da un non ebreo? Albert Einstein, in procinto di abbandonare la Germania, dovendo compilare un modulo che richiedeva, tra l’altro, di dichiarare la razza d’appartenenza, scrisse semplicemente: “umana”. Sartre ha scritto in proposito:

se si vuole sapere che cos’è l’ebreo contemporaneo bisogna interrogare la coscienza cristiana: bisogna chiederle non “che cosa è un ebreo”, ma “che cosa hai fatto degli Ebrei?”. L’ebreo è un uomo che gli altri uomini considerano ebreo: ecco la verità semplice da cui bisogna partire. In questo senso il democratico ha ragione contro l’antisemita: è l’antisemita che “fa” l’ebreo… (J.P. Sartre, L’antisemitismo, 1964)

Definire l’ebraismo secondo le nozioni comuni di stato, nazione, razza, comunità linguistica è pressoché impossibile. Israele, ad esempio, oggi è il nome di uno stato ebraico, dotato di una costituzione democratica  parlamentare di tipo occidentale, fondata sul suffragio universale e sul principio di separazione dei poteri. Lo stato d’Israele è almeno in linea di principio, laico, ossia non soggetto ad autorità o controlli religiosi, anche se, poi, alcuni principi teocratici, voluti dai partiti religiosi e giustificati dal tradizionale legame tra identità ebraica e religione, ne condizionano pesantemente l’esistenza. Lo stato d’Israele grazie al volontarismo della popolazione, agli aiuti americani, ai risarcimenti tedeschi e alle donazioni della Diaspora, ha conosciuto un forte sviluppo economico e industriale ed è oggi di gran lunga la maggiore potenza militare del Medio Oriente.  Il suo problema più grave resta il conflitto mai veramente chiuso con gli stati arabi e la mancata soluzione del problema palestinese che trattengono Israele in una condizione di perenne insicurezza e lo mettono anche moralmente in difficoltà di fronte alla comunità internazionale. Insomma Israele è oggi, con tutti i suoi problemi, una grande e vitale realtà politica. Eppure gran parte degli ebrei vive fuori di esso: gli ebrei in Israele sono poco più di tre milioni mentre solo negli Stati Uniti vivono sei milioni d’ebrei. Gli ebrei fuori d’Israele anche quando rivendicano l’appartenenza al popolo ebraico, in nessun caso si sentono “israeliani all’estero”. Ebrei ed israeliani sono insomma entità ben distinte. Lo sono anche nel senso che, se “israeliano” vuol dire cittadino dello stato d’Israele, su tre milioni e mezzo d’israeliani mezzo milione circa sono arabi, non ebrei e poiché l’incremento demografico degli arabi israeliani è più alto di quello degli ebrei israeliani, non è azzardato immaginare che, con l’andare del tempo, gli arabi finiscano per prevalere.

Ma se gli ebrei costituiscono una realtà molto più vasta del popolo d’Israele, ossia non s’identificano con nessuno stato, neppure con quello d’Israele, non si può neppure affermare che costituiscano una razza a parte.

Sin dall’epoca tardo-romana gli ebrei si sono mescolati con tutti i popoli del mondo. Gli antisemiti in genere parlano degli ebrei come di una razza, “razza maledetta”, “brutta razza”. La verità è che una razza semitica non esiste. La voce “ebrei” nell’Enciclopedia Treccani, stampata in pieno ventennio fascista, recita: «Occorre anzitutto affermare l’inesistenza di un insieme di caratteri corporei limitati al popolo ebraico. Questo è costituito, in tutti i suoi diversi raggruppamenti, da mescolanze di razze o elementi diversi tra loro, ma che sono gli stessi elementi che contribuiscono alla formazione di altri gruppi etnici, sia europei, sia extraeuropei. Gli ebrei né costituiscono una razza né hanno caratteristiche proprie».

Né stato né razza, dunque. Gli ebrei, d’altra parte, non costituiscono neppure una comunità linguistica, perché non esiste una lingua esclusiva e comune a tutti e molti ebrei non parlano né l’ebraico né lo jiddish. Ma infine il popolo ebraico non è neppure in senso proprio una comunità religiosa: molti ebrei infatti sono atei e affermano che il loro ebraismo non ha nulla a che vedere con la religione; altri sono religiosi ma non osservano la Halakhah, la legge religiosa ebraica.

Secondo Hans Kung:

“l’ebraismo è l’enigmatica comunità di destino di tutti coloro che, ovunque e comunque, fanno risalire la loro origine a Giacobbe, che nella Bibbia prese il nome d’Israele, o più esattamente, dal punto di vista giuridico: che hanno una madre ebrea o che si sono convertiti all’ebraismo. Ora non importa che essi abbiano la medesima lingua, cultura, razza: hanno il medesimo destino. Essi formano una comunità di destino che (non importa se ammessa, ignorata o negata dai singoli membri) lungo una storia di 3000 anni, lungo secoli di pace e secoli di persecuzione, anzi di sterminio, ha rivelato fino ai nostri giorni un’inaudita, incomparabile, meravigliosa forza di autoconservazione”.

E tuttavia un’identità ebraica esiste ed è un’identità forte. Ciò che la contraddistingue è in primo luogo la religione. La fede nel Dio unico è rimasta sempre il centro della religione ebraica. Senza la forza coesiva della fede il popolo ebraico, disperso per 2000 anni, non avrebbe potuto conservare la propria identità.  Anche gli ebrei atei o secolarizzati hanno sempre fatto ricorso alla fede per spiegare a se stessi o ai propri figli perché gli ebrei sono quello che sono. Il centro della fede israelitica è dato dal Dio unico, dal suo popolo e dalla sua terra e riflettere sul centro significa tentare di definire sempre meglio l’identità ebraica.  

Senza Jahvè e Israele non si possono comprendere nemmeno gli inizi della società israelitica: un Dio, un popolo, una terra. Jahvè è il Dio di Israele, Israele è il popolo di Jahvè, la storia politico-religiosa del popolo ebraico è la storia della loro alleanza.

Leggendo la Genesi si nota come Israele, a differenza dei popoli egiziani e mesopotamici, non consideri la propria esistenza come qualcosa di dato da sempre, ma sia consapevole della sua tardiva acquisizione di un’identità. Così la storia di Israele è preceduta da una storia delle origini che va dalla creazione del mondo alla costruzione della torre di Babele, alle vicende dei patriarchi.

Il primo dei patriarchi è Abramo, seguito da Isacco e Giacobbe. Secondo la tradizione biblica la famiglia di Abramo sarebbe emigrata da Ur, in Mesopotamia, nel paese di Canaan. Quest’origine doveva acquistare un grande significato simbolico nella storia degli ebrei: Abramo vive come nomade in una civiltà agricola che impedisce a lui e agli altri patriarchi di stabilire legami matrimoniali con le famiglie indigene. Abramo viene designato come “ebreo” (‘ivri), termine che non va considerato come sinonimo di israelita: gli habiru dei testi cuneiformi mesopotamici e i ‘pwr dei testi egiziani, che vengono identificati con gli ebrei, più che un popolo sono uno strato sociale basso, formato da stranieri, nomadi o schiavi, il che non impedisce ad alcuni di loro di raggiungere posizioni di prestigio.

Le primitive civiltà tribali bibliche erano impostate sulla poligamia e infatti Abramo (il cui nome significa  “padre di molti popoli”) aveva diverse concubine; con la moglie Sara egli generò Isacco, padre di Esaù e di Giacobbe, il quale ultimo, chiamato in seguito Israele,  viene considerato il capostipite diretto delle dodici tribù del popolo ebraico. Con la concubina egiziana Agar, invece, Abramo generò Ismaele, capostipite di dodici gruppi appartenenti a una confederazione protobeduina, che territorialmente si estendeva sull’intera Arabia settentrionale. In origine, dunque, Israele si sentiva imparentato ai semiti protoarabi insediati in Arabia. Quando Abramo ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e disse:

“Io sono Dio onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò numeroso molto, molto…  stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. Darò a te a e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne; sarò il vostro Dio… Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi” (Genesi 17)

Sul piano cronologico si distingue l’”ebraismo” in senso stretto, che concerne la cultura e la storia ebraica dalle origini sino all’esilio babilonese del VI secolo a.C., dal “giudaismo”, che viene diviso in antico (fino all’inizio dell’ellenismo) e medio (fino al II secolo d.C.). Quest’ultimo comprende anche il Cristianesimo delle origini. Esiste poi il giudaismo rabbinico che arriva sino ai nostri giorni.

Senza l’ebraismo non sarebbero immaginabili né il cristianesimo né l’islamismo. L’ebraismo è una religione etnica, ossia propria di un popolo, ma è anche una religione universale. È un enigma, indefinibile nella sua essenza: il piccolo popolo che ne è portatore ha fatto parte successivamente del mondo assiro, babilonese, persiano, greco, romano, cristiano e si è alla fine diffuso su tutta la terra.

Dopo Abramo la seconda figura centrale è quella di Mosè; sarà lui ad avere l’incontro decisivo con Dio, il Dio vivente dell’ira e della grazia, il Signore della vita e della morte, dal quale l’uomo dipende: un tu che parla e al quale si può parlare. Mosè è il condottiero dell’esodo, della liberazione, della marcia attraverso il deserto; è un profeta, cioè un portavoce di Dio: è anzi il prototipo del profeta, portatore di una fede incrollabile che vince contro la miseria e la disperazione; è il maestro (Moshè Rabbenu), il baluardo della tradizione e della continuità. Dopo di lui, sarà l’eroe guerriero Giosuè a portarne a compimento l’opera con l’insediamento degli ebrei nella terra loro promessa da Dio. La loro è ancora una società tribale, premonarchica, prestatale. Il passaggio a un’organizzazione statale vera e propria si realizza quando gli Ebrei devono affrontare la minaccia dei Filistei, una potenza militare che cerca di estendere la propria egemonia sull’intera Palestina. Affrontare un popolo militarmente più forte impone di unire le forze e di metterle sotto un comando stabile, un monarca. Il primo re è Saul (1029-1007 a.C.), re condottiero, che raccoglie sul campo, assieme al figlio Gionata, i primi successi. Sconfitto dai Filistei, Saul, ormai malato psichicamente, si getta sulla propria spada. E’ Davide (1000-970 a.C.) della tribù di Giuda, genero di Saul, a portare a compimento la costruzione dello stato: il suo regno è ancora oggi, per molti ebrei, un grande ideale.

Di Davide (“prediletto da Dio” secondo l’interpretazione comune) abbiamo molte notizie. Figura di grande intelligenza e carisma, a lui si deve la grandezza di Gerusalemme ed il ruolo di città santa che ancora oggi tutti le attribuiscono. Per opera di Davide Jahvè diventa a Gerusalemme una sorta di divinità statale e così inizia una nuova era che terminerà con la distruzione del primo tempio, nel 586 a.C. Come si è già detto, il regno di Davide rappresenta ancora oggi un modello da imitare, perché rappresenta lo stato forte con un potente esercito, un’amministrazione efficiente, un clero integrato nello stato, e soprattutto un’identità nazionale entro confini sicuri. Con Davide la guerra di difesa diviene guerra di conquista: sotto il suo regno sono annessi gli stati aramei, con la capitale Aram-Damasco, e il regno degli ammoniti, con la capitale Rabbat-Ammon, oggi Amman. Dall’ideologia regale sorta intorno alla figura del re Davide si svilupperà un’ideologia messianica, ossia l’idea di un messia che, in quanto “re del tempo finale”, porterà a compimento la speranza del popolo ebraico.

Dopo Davide in mezzo a molte tragedie, incesti e fratricidi, salì al trono il figlio di Davide e Betsabea, Salomone, figura controversa che associa grande saggezza e non comune ferocia. Il suo nome è legato alla costruzione del tempio di Gerusalemme e alla costituzione di un formidabile esercito, ma anche alla formazione del latifondo e al conseguente impoverimento delle masse. Verso il 927 a.C. si giunse alla divisione del regno: a nord nasce il regno d’Israele che avrà come capitale Samaria e a sud il regno di Giuda con capitale Gerusalemme.

L’epoca della divisione del regno è anche l’epoca del profetismo classico. Profeta è colui che “annuncia” qualcosa e, nel caso specifico dell’ebraismo, annuncia Dio stesso; il profeta è un uomo che non predice, ma “dice la verità”: il profeta è il “chiamato” (Navi) da Dio. La differenza tra la grandezza di Dio e il profeta è incommensurabile, ma egli non è soggiogato, bensì è posto davanti ad una decisione: rispondere sì o no alla chiamata di Dio. Perché portavoce di Dio, i profeti sono i custodi, gli ammonitori, i controllori, gli esortatori scomodi; essi non sono strumenti privi di volontà, ma uomini turbati nell’animo, insicuri, ma certi della grazia di Dio. Elia ed Eliseo furono profeti non scrittori e vissero nel secolo IX; nei secoli VIII-VII vissero i profeti scrittori Amos, Osea, Isaia, Geremia, Ezechiele e Malachia; essi minacciarono il crollo dei regni d’Israele e di Giuda, fustigarono la cultura secolarizzata e sostennero la fede monoteista. Essi esprimono una critica radicale al loro tempo e annunciano il castigo di Dio. Pongono il popolo ebraico davanti ad una scelta: allontanamento da Dio e rovina oppure ritorno a Dio e vita nuova. Entrano quindi in contrasto con la monarchia e i sacerdoti e costituiscono l’unico correttivo rispetto all’iniquità delle classi dominanti. A causa del loro rifiuto della guerra e della loro critica sociale, sono isolati, ignorati, trattati come folli. La storia dei profeti è una storia di passione ma la loro Parola è sopravvissuta alla monarchia e al sacerdozio. I profeti sono dunque, con Mosè, le figure centrali della storia religiosa d’Israele e il popolo d’Israele attende ancora la venuta del profeta escatologico. Più tardi i maestri della Torah sostituiranno, per importanza, i profeti. Per il cristianesimo invece Gesù è il profeta escatologico promesso e in lui si compiono le profezie della Bibbia ebraica.

La fine dei due regni era stata preconizzata dai profeti e si verifica puntualmente: nel 733 il nord viene occupato dagli Assiri e non risorgerà mai più; il sud si presenta come l’erede unico dello stato davidico e della sua ideologia. Il regno di Giuda era stretto tra due grandi potenze: Egitto e Mesopotamia; soltanto con il re Giosia (639-609 a.C.) ci fu un certo periodo di respiro, coincidente con il declino assiro. Nel 621, durante i lavori di restauro del tempio di Salomone, venne scoperto un libro, una prima forma del Deuteronomio (seconda legge); era un codice che appariva come il grande discorso di commiato di Mosè, nel quale si affermava che Jahvè richiedeva obbedienza assoluta. Giosia proclama dunque una nuova alleanza tra Jahvè e il popolo d’Israele; il tempio, o meglio Sion, vale a dire il monte del tempio, considerato la sede di Dio, viene ritenuto santo e, secondo la concezione deuteronomistica il Dio trascendente fa “abitare il suo nome” nel Santo dei Santi del tempio. I culti pagani e sincretistici vengono eliminati e Giosia attua una riforma politico-religiosa nel segno dell’alleanza (Berit) e dell’elezione; quest’ultima viene intesa in senso marcatamente religioso-nazionale ed esclusivo nei confronti degli altri popoli.

La riforma di Giosia doveva concludersi tragicamente: a Meghiddo il faraone Nekao II fa uccidere Giosia e il regno di Giuda cade in mano agli Egiziani. Nel 586 Gerusalemme viene saccheggiata dai babilonesi di Nabucodonosor II, il tempio di Salomone viene dato alle fiamme assieme all’antica arca dell’alleanza. Gerusalemme viene rasa al suolo e la classe dirigente deportata a Babilonia. Il re Sedecia, dopo aver assistito all’uccisione dei suoi figli, viene assassinato.

L’esilio babilonese dura quasi cinquanta anni, dal 586 al 538 a.C.; la dispersione d’Israele (Diaspora) è rimasta una realtà storica sino ad oggi. Dall’esilio babilonese Israele vive in continua tensione tra patria e diaspora. La fine del regno davidico non è quindi la fine del popolo d’Israele, tutt’altro! I deportati in Babilonia si considerano la parte migliore d’Israele, “il santo Resto” annunciato dai profeti. In Babilonia essi conducono una vita accettabile, non sono schiavi ma sudditi abbastanza liberi, con redditi a volte cospicui; una caratteristica degli esuli è la compattezza e questa è una dote che Israele conserva ancora oggi. Grazie a questa compattezza nasce la speranza del ritorno nell’antica patria: la nostalgia di Gerusalemme; soltanto nella città santa Jahvè può essere adorato come si conviene. Inizia a svilupparsi il culto della Torah, è praticata la circoncisione, adottato il precetto del sabato, i riti di purificazione e le prescrizioni sugli alimenti, e proprio ora divengono importanti le feste commemorative come segno dell’appartenenza al popolo di Jahvè. Si forma la classe degli scribi e dei dottori della legge, interpreti quotidiani della Torah.

Crollato lo stato, per la conservazione dell’identità d’Israele divengono sempre più importanti le tradizioni scritte. Da tempo immemorabile esistevano le Storie (Haggadà, cioè racconto) che illustravano l’identità del popolo, e le Leggi (Halakà, cioè direzione del cammino) che regolavano il comportamento del popolo.

L’osservanza della legge e il culto di Jahvè sono intesi in modo esclusivo ed è questo che consente agli esuli di restare uniti spiritualmente. Di fronte alla catastrofe gli ebrei vengono rafforzati nella loro fede dai profeti: Ezechiele e il Deuteroisaia ribadiscono che Jahvè è il Dio unico, creatore e signore dell’universo e Israele è il suo popolo eletto. Così in tempo d’esilio e disperazione viene posto il fondamento della speranza, di un ritorno a Gerusalemme per riedificare il tempio.

Il dominio persiano rappresenta una nuova possibilità per Israele: al contrario di Assiri e Babilonesi, i Persiani adottano una politica tollerante nei confronti dei popoli sottomessi. Nel 538 Ciro emana un editto che permette la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e il ritorno in Palestina degli arredi sacri del tempio confiscati da Nabucodonosor. Il ritorno in patria avviene lentamente e soltanto nel 526 iniziano i lavori per la costruzione del secondo tempio, consacrato solennemente nel 515 sotto il re Dario. In questo tempio, più modesto rispetto a quello di Salomone, al posto dell’arca dell’alleanza, è collocato un candelabro a sette bracci (Menorah), in seguito simbolo del risorto stato di Israele. In questa fase il potere è in mano ai sacerdoti, ma già nel 465 un profeta anonimo, sotto il nome di Malachia (mio messaggero), che la tradizione ebraica considera l’ultimo dei profeti, lamenta l’esteriorizzazione del culto, l’avidità dei sacerdoti, l’infedeltà del popolo e i matrimoni misti.

Sotto i due grandi riformatori Nehemia ed Esdra, al tempo di Artaserse, viene avviato l’autoisolamento della comunità ebraica e si prepara quella che in seguito verrà detta l’ortodossia giudaica, caratterizzata da una spiccata concentrazione sulla Legge. Ora il modello non è più quello regale-davidico, ma quello della gerarchia templare di Gerusalemme, che ha come punto di riferimento le Sacre Scritture che divengono legge vincolante. La forma di governo è la teocrazia nella quale Dio stesso esercita il potere sulla comunità dei credenti, mediante il sacerdozio e la legge. Da questo momento Israele si identifica con il Giudaismo. Giunge a conclusione il processo di canonizzazione degli scritti ebraici, il Tanak (Torah, Neviim, Ketubim). Si afferma la liturgia della Parola e accanto al tempio acquista importanza la sinagoga. Vivere sotto la legge significa pregare (al mattino, alla sera, di notte e al momento dei pasti); la via della Torah è la via di una continua dedizione a Dio. Ma la concentrazione dell’ebraismo sulla legge rischia di cadere nel legalismo e nel ritualismo.

A causa dell’incontro con l’ellenismo l’ebraismo diviene religione universalistica. Il conflitto tra le due culture, quella ebraica tradizionale e quella ellenistica, sfocia nella rivoluzione guidata dal sacerdote Mattatia e dai suoi cinque figli della stirpe di Asmone, gli asmonei. Il terzo figlio, Giuda detto Maccabeo (Maccabaj in aramaico significa “che ha la testa a forma di martello”) vince tre battaglie contro i seleucidi. Il 14 dicembre del 164 a.C. viene riconsacrato il tempio profanato e ancora oggi gli ebrei di tutto il mondo ricordano questo evento con la festa di Chanukkà (purificazione del tempio), che è diventata, in quanto “festa delle luci” (con il candeliere a otto bracci di Chanukkà) una specie di Natale ebraico. Il popolo è diviso: il gruppo dei pii (Chasidim), dal quale deriverà il partito dei farisei, si accontenta dell’autonomia religioso-spirituale sotto la dominazione siro-seleucide; gli “esseni” o ebrei radicali si segregano per protesta; i “sadducei” ellenizzanti, di ceppo aristocratico, pressati da ambo i lati, chiamano in aiuto i seleucidi che prevalgono sui Maccabei e Giuda viene ucciso. Il fratello di Giuda, Gionata, continua la lotta, riunificando nella sua persona, dopo più di quattro secoli, il potere temporale e quello spirituale. La Giudea torna indipendente nel 135 a.C. con Ircano I.

L’indipendenza politica sarà perduta a favore dell’Impero romano con la consegna di Gerusalemme a Pompeo: la Giudea diviene così uno stato vassallo di Roma. Il re Erode governa col terrore e il sangue, il che favorisce la leggenda neotestamentaria della strage degli innocenti. Essendo i Romani tolleranti in materia religiosa, lo stato d’Israele si configura sempre più come teocratico, col tempio come centro politico-religioso. L’organo di governo competente per gli affari giuridici e amministrativi è ora il Consiglio Supremo di Gerusalemme (Sinedrio, dal greco Synhedrium che significa assemblea), presieduto dal sommo sacerdote. Una forma di reazione alla cultura ellenistica è il libro di Daniele, nel quale si parla di una catastrofe finale e si giunge, per la prima volta nella storia del popolo ebraico, a formulare la fede in una resurrezione dei morti. In questo contesto si colloca Gesù di Nazaret, violentemente contestato in vita e della cui resurrezione dopo la morte violenta era convinto un nutrito gruppo di ebrei. I Romani liquidano Gesù nel 30 circa d.C. come uno dei numerosi sobillatori ebrei e in un contesto di forti tensioni tra gli ebrei; zeloti e sicari (pugnalatori) lottavano contro l’occupazione romana anche se a una grande sollevazione si giunse soltanto intorno al 66-70. Si tratta di una rivolta nazionale contro la dominazione romana e al contempo di una lotta sociale di classe contro il gruppo aristocratico filoromano sotto le forme di lotta religiosa. Nell’agosto del 70 Tito fa incendiare il tempio di Gerusalemme e a settembre conquista la città alta con conseguente bagno di sangue e distruzione di gran parte della città. Tra il 132 e il 135 si scatena un’altra guerra giudaico-romana che causa circa 850.000 morti. Dopo questa catastrofe nazionale e la perdita definitiva sia del regno sia del tempio e del sacerdozio, l’unico fondamento del rapporto con Dio resta la Torah, con conseguente ritualizzazione della vita quotidiana. Da questo momento la stragrande maggioranza degli ebrei vive nella diaspora, dispersi dall’Indo a Gibilterra. Troviamo ebrei nei secoli IV-VI d.C. nello Yemen, terra della leggendaria regina di Saba, in Arabia centrale, soprattutto a Medina. Nel secolo VIII nel territorio russo compreso tra il Volga, il Mar Nero e il Mar Caspio, poi soprattutto in Spagna; dal X all’XI in Europa centrale. Il popolo ebraico disperso ai quattro venti riesce a conservare l’unità della sua religione mediante la Torah orale, fissata e conservata dal Talmud, e l’autorità dei maestri.

(Da Nicolò Scialfa, lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare, Roma , 2002)

J.V.

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