Atalanta e Ippomene

Venere racconta la storia di Atalanta e Ippomene

“Avrai forse sentito parlare di una che vinceva nelle gare di corsa gli uomini più veloci. Non era una frottola, quella voce: li vinceva davvero. E non avresti saputo dire se fosse più da ammirarsi per merito dei piedi o per la bellezza del corpo. A co­stei, che lo consultava a proposito del matrimonio, l’oracolo ri­spose: ‘Tu non hai nessun bisogno di un marito, Atalanta. Evi­ta l’esperienza coniugale. E tuttavia non vi sfuggirai e, viva, non sarai più te!’ Atterrita da quel responso, essa va a vivere nei bo­schi bui, senza sposarsi, e per sbarazzarsi dello stuolo petulante dei suoi pretendenti pone loro, crudele, questa condizione: ‘Nessuno potrà avermi se prima non mi vincerà nella corsa. Mi­suratevi con me: chi sarà veloce abbastanza, avrà in premio me come sposa; i lenti pagheranno con la morte. Questa è la regola della gara’. Cattiva proprio; ma, tanta è la potenza della bellez­za, quei temerari di pretendenti accettano e si presentano in fol­la. Rischiosissima corsa! Seduto tra gli spettatori c’era Ippò­mene, il quale aveva detto: ‘Possibile rischiare tanto per avere una moglie?’, e aveva biasimato il fanatismo dei giovani spasi­manti. Ma quando lei si sfilò, i veli e mostrò il suo corpo splen­dido (come il mio, o come il tuo se tu divenissi femmina), rima­se sbalordito e alzando le braccia esclamò: ‘Perdonatemi, voi che un istante fa rimproveravo! Ancora non sapevo a quale pre­mio aspiravate!’ E mentre la ammira, s’infiamma, e si augura che nessuno sia più veloce di lei, e teme, preso dall’invidia. ‘Ma per­ché non tento la fortuna e non partecipo anch’io? – dice. – La divinità aiuta gli audaci’. Mentre il giovane dell’Aònia cosi ra­giona fra sé, la vergine corre come avesse le ali. E lui, per quan­to stupito al vederla filare come una freccia degli Sciti, ancor di più è stupito della sua bellezza, ché quella corsa la fa ancor più bella. Porta, sollevata dai piedi veloci, sandali d’oro; i capelli svolazzano sulle spalle d’avorio, come svolazzano le fasce, dai bordi ricamati, che ha alle ginocchia; e il candore verginale del suo corpo si è soffuso di rosa: cosi una tenda di porpora, in un atrio marmoreo, trasmette al bianco come un velo d’ombra. Il forestiero sta ancora osservando queste cose, che ecco, si taglia il traguardo e Atalanta, vincitrice, viene ricinta di corona festo­sa. Mandano un gemito gli sconfitti, e pagano con la vita, come pattuito. Ippòmene non si lascia però spaventare dalla loro sor­te; si fa avanti e fissando la vergine dice: ‘Perché cerchi facile gloria vincendo gente incapace? Gareggia con me, e se la fortu­na mi assisterà, non ti lamenterai di essere stata vinta da uno come me! Mio padre infatti è Megareo di Onchesto, e suo non­no è Nettuno: sicché io sono pronipote del re delle acque, e il mio valore non smentisce questa origine. Se poi sarò sconfitto, il fatto di aver vinto Ippòmene ti procurerà fama grande e impe­ritura!’ Cosi dice, e intanto la figlia di Schenèo lo guarda con oc­chi dolci, e non sa se preferire di essere vinta o di vincere, e pensa: “Quale dio, cattivo con chi è bello, vuol perdere costui spingendolo ad aspirare alla mia mano e a mettere a repentaglio la sua cara vita? A mio giudizio, non valgo poi tanto! E non è la sua bellezza a commuovermi (anche se ben potrebbe commuo­vermi), ma il fatto che è ancora un fanciullo. Non lui mi turba, ma la sua età. Ma poi, è tanto prode e non trema al pensiero della morte! Ma poi, è in linea il quarto della stirpe del re del mare! Ma poi, mi ama e ci tiene tanto a sposarmi, da morire se una sorte cattiva dovesse negarmi a lui! Vattene, forestiero, fin­ché puoi, e rinuncia a queste nozze sanguinarie. Matrimonio cru­dele è il mio. Nessuna rifiuterà di sposarti, e troverai certamente una fanciulla saggia che ti desideri. Ma perché mi preoccupo di te dopo averne mandati a morte già tanti? Mah! veda lui! Che muoia, visto che non l’ha spaventato la strage di pretendenti e che è stanco di vivere. Ma allora costui perirà perché voleva vi­vere con me, e in cambio dell’amore subirà, ingiusta ricompen­sa, la morte? Se vincerò, non sarà una vittoria invidiabile. Però non è colpa mia. Oh, perché non rinunci? Ma se sei cosi pazzo, oh fossi tu più veloce di me! Però, che sguardo virgineo su quel viso di fanciullo! Ah, povero Ippòmene, come vorrei che tu non mi avessi mai visto! Tu meritavi di vivere, e se io ero più for­tunata, se un destino disgraziato non mi proibiva di sposarmi, eri l’unico con cui avrei voluto condividere il letto’. “Cosi ragiona, e inesperta, toccata per la prima volta da Cu­pido, non sapendo che sia, ama e non si rende conto di amare. Già il popolo e il padre di lei reclamano la solita gara, quando Ippòmene, discendente di Nettuno, con voce concitata m’invo­ca dicendo: ‘Che la dea di Citèra mi assista nella prova e favo­risca la passione che mi ha infuso’. Il vento benigno portò fino a me quella gentile preghiera, e io mi commossi, lo confesso, e non c’era tempo da perdere. C’è un campo (la gente del posto lo chiama campo di Tàmaso), che è la parte più bella dell’isola e che è stato consacrato a me dagli antichi, i quali ne fecero do­nazione al mio tempio. In mezzo a questo campo risplende un albero dalla chioma fulva, dai rami crepitanti di fulvo oro. Per caso io me ne stavo tornando di li e portavo in mano tre mele d’oro che avevo colto. Invisibile a tutti tranne che a lui, mi avvi­cinai a Ippòmene e gli spiegai che uso doveva fare di quei pomi. Ecco che squilli di tromba dànno il via: dalla linea di partenza l’uno e l’altra scattano tutti curvi in avanti, e i loro piedi veloci sfiorano appena la sabbia. Diresti che potrebbero radere il ma­re senza bagnarsi le piante, correre su un campo giallo di grano senza piegare le spighe. Urla e applausi incoraggiano il giova­ne, e qualcuno gli grida: ‘Forza, forza, questo è il momento di buttarsi, Ippòmene! Corri! Mettici tutte le tue energie! Presto, ché vinci!’ Non si sa se queste parole facciano più piacere all’eroe figlio di Megareo o alla vergine figlia di Schenèo. Oh, quante volte lei, quando già poteva sorpassarlo, rallentò e, con­templato a lungo il suo viso, a malincuore se lo lasciò indietro! Dalla bocca affannata usciva secco respiro, e il traguardo era an­cora lontano. Allora il discendente di Nettuno si decise a lasciar cadere uno dei tre frutti. Si stupì, la vergine, e incantata dal po­mo luccicante deviò e raccolse la sfera d’oro che rotolava. lp­pòmene la sorpassa; dalle tribune uno scroscio di applausi. Lei recupera con corsa veloce il tempo perduto, e di nuovo si lascia il giovane alle spalle. Rimasta indietro un’altra volta al lancio del secondo pomo, un’altra volta lo insegue e lo supera. Ormai c’era da correre solo l’ultimo tratto. ‘Ora assistimi, – disse lui, – o dea che mi hai fatto il dono!’ e con vigore lanciò l’oro splendente in linea obliqua verso il bordo della pista, perché essa ci mettesse più tempo a tornare. La vergine parve incerta se andarlo a pren­dere o no. Io la costrinsi a raccoglierlo, e quando lo ebbe preso ne accrebbi il peso e casi la ostacolai anche col carico, oltre che con la sosta. Perché il mio racconto non sia più lungo della cor­sa stessa: la vergine fu sorpassata: il vincitore se la prese, in premio, in moglie. “Non meritavo, o Adone, che lui mi ringraziasse, che mi onorasse con incenso? Dimenticatosi di me, né mi ringraziò né mi offri incenso. Mi piglia allora un accesso d’ira, e imperma­lita per quello spregio, per non farmi spregiare da altri in avve­nire, provvedo a dare un esempio, istigando me stessa contro tutti e due. Essi passavano davanti al tempio che un giorno il nobile Echione, per sciogliere un voto, aveva eretto alla Madre degli dèi, tempio nascosto nel folto di una foresta; il lungo cammino li invogliò a riposarsi. Lì Ippòmene vien preso da una improvvisa quanto inopportuna brama di accoppiarsi, suscitata dal mio divino potere. C’era, vicino al tempio, una cella dove la luce filtrava appena, simile a una grotta, con una volta naturale di pomice e sacra da tempo immemorabile; il sacerdote vi aveva radunato molte statue di legno di antichi dèi. Ippòmene vi entra e profana il luogo santo con l’atto proibito. Le sacre immagini voltarono gli occhi per non vedere, e la Madre dal capo incoro­nato di torri fu incerta se affogare i colpevoli nell’onda dello Stige. La pena le parve leggera. E cosi, ecco che invece fulve cri­niere velano i colli poco prima lisci, le dita s’incurvano in arti­gli, le spalle diventano attaccature di zampe, tutto il peso si spo­sta in avanti, nel petto, e con la coda spazzano la sabbia. La fac­cia si corruccia, invece di parole emettono brontolii, invece che in case vivono e si accoppiano nelle foreste, e, temibili per gli altri, serrano tra i denti il morso, aggiogati al carro di Cibèle, leoni. “Tu, mio caro, evita queste belve, e con loro tutte le altre specie di animali che invece di voltare le spalle per scappare of­frono il petto per combattere, perché il tuo ardimento non abbia a nuocere a te ed a me”.

PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, X, 561-707 (storia di Atalanta e Ippomene). Testo tratto da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, 1994

Atalanta comprende che il matrimonio sarebbe una sciagura  e quindi sceglie diversamente. Viene punita. Viene dannata. Non possiamo scegliere.  Fatalmente si sposa, e la sua tragedia si compie. La dea Cibele punisce uno sgarbo che Atalanta aveva cercato di evitare. Siamo quindi predestinati? l’agire umano che senso ha? Su questi temi si è sparso molto sangue. Nel nostro Tempo, quello della Techne, neppure la Chiesa, ormai consapevole della scarsa tenuta religiosa, affronta questi temi assai pericolosi. Preferisce un conveniente silenzio. Il mito di Atalanta parla, urla il dolore, l’inanità dello sforzo umano, il mistero del Male. Non si parla più del Male forse perché esso ha vinto nella sua banalità. Soltanto i pazzi, i bambini innocenti e le vittime parlano inconsapevolmente del Male, ne sono testimonianza.

Atalanta segue il suo destino terribile, in modo ineluttabile, non ha scampo. Il significato consiste nell’accettazione di questo destino. Dobbiamo conoscere il Male, averne consapevolezza. Soltanto così possiamo evitare di commettere la nefandezza più grave: giudicare gli altri. E se non comprendiamo, dobbiamo tacere senza giustificare il fato, o Dio. Atalanta  col  volto di leonessa ci conduce nel non-luogo, là dove  le parole sono prive di senso.

Possiamo agire ma nella consapevolezza spinoziana che le nostre azioni non saranno determinanti, il loro esito spesso sarà contrario rispetto alle aspettative e a volte, molto spesso, ciò che pensiamo sia il Bene degli altri, si trasforma in Male. Le illusioni grottesche nate a cavallo tra fine Settecento e alimentate dalla sciagurata idea del progresso felice di stampo ottocentesco hanno partorito il Mostro totalitario novecentesco. La sapienza millenaria ci diceva “in principio era il Verbo”… Faust ci dice “in principio era l’azione”, da qui il compimento della tragedia.

J.V.

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