L’EREDITÀ DI ALESSANDRO MANZONI IN AMERICA. SI TRADUCONO I PROMESSI SPOSI CHE ANCORA DIVIDONO L’ITALIA

L’EREDITÀ DI ALESSANDRO MANZONI IN AMERICA. SI TRADUCONO I PROMESSI SPOSI CHE ANCORA DIVIDONO L’ITALIA

Un romanzo maltrattato a scuola, brandito sia dalla cultura accademica sia dai suoi critici. La nuova versione in inglese è l’occasione per leggerlo “da fuori”. E tornare a discuterne
Quasi la storia di una controcultura: Eco suggeriva di leggere Manzoni “sottobanco”, come un fumetto, per liberarlo dalle pastoie scolastiche

Sicilia secondo dopoguerra. Un mafioso e un capitano dei carabinieri si affrontano in una schermaglia verbale che si conclude in un nulla di fatto, ossia nella vittoria del criminale stesso. Ciò non impedisce la cauta confessione d’un reciproco attestato di stima. ‘Lei è un uomo… – Anche lei’ disse il capitano con una certa emozione. Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà: e come un cieco ricostruisce nella mente, oscuro e informe, il mondo degli oggetti, così don Mariano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi, dei rapporti umani. E quale altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole su una realtà immobile e putrida?”. Sono parole di Sciascia che riecheggiano esplicitamente quelle con cui a sua volta Manzoni riconosceva alla volontà anarchica e selvaggia dell’Innominato una forza capace di spiccare e imporsi comunque sul pantano anonimo del bene e del male ordinari e sulle carenze dello stato. “Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro”.

Nell’ Appunto 32, Provocatori e Spie di Petrolio, Pasolini tratteggia una serata di gala del nuovo-vecchio potere politico ed economico dell’Italia del Boom, un festino di avidità e una passerella fatua dove c’è spazio per tutti. Allo “sfavillare della luce, come di una nave ancorata in un porto buio ma in festa”, industriali, consorti, scrittori dai visi “segnati profondamente nei lardi, o tirati da infauste magrezze, essi tutti ci credevano”. In cosa? Tutti fornivano il loro “contributo, ben codificato di fatuità e allegria” alla sottaciuta menzogna universale di quel mondo nel mondo. A sua volta ciò riprende e attualizza il banchetto per podestà, nobilastri e avvocati nel palazzotto di Don Rodrigo: “Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s’immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s’udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli”.

L’elenco di simili citazioni potrebbe continuare all’infinito. Il tutto è stata ironicamente sintetizzato da Gesualdo Bufalino: “Come con Dio, i conti col Manzoni non si chiudono mai…” Altrettanto opprimente ed elusivo, il suo peso sulle generazioni successive resta ancora oggi una delle coordinate fondamentali per valutare direzioni e scelte della scrittura italiana, e dell’identità nazionale stessa. Cosa vuol dire scrivere davvero un romanzo “italiano”, dopo Manzoni? Un bel problema, che a sua volta pare quasi echeggiare lo scambio di battute tra Manzoni stesso e un perfido Giordani che a bruciapelo gli chiese: “E’ vero che credete ai miracoli?” e per risposta ottenne uno sfumato: “Eh! E’ una gran questione”. Una prima difficoltà sta nel mettere semplicemente a fuoco lo spazio che I promessi sposi hanno occupato nell’orizzonte collettivo. Esso è tanto vasto che a un certo livello tutti credono di conoscere già Manzoni, perché in fondo ci sono nati dentro, e la complessità e l’audacia della sua operazione risultano così apparentemente innocui, addomesticati. “Tutti sanno chi è, come fosse uno di casa. Il che complica le cose, a volerlo rileggere senza pregiudizi”, notava Gino Tellini, e questo perché Manzoni stesso “ha posto tanta cura” – è a sua volta una perfida intuizione del contemporaneo Giordani – in apparir semplice, e quasi minchione”. Quasi.

La lettura del suo romanzo coincide con la storia dell’unificazione culturale del nostro paese. Già Boito aveva bollato Manzoni come “Il gran prete” della morale nazionale. Eppure Manzoni è stato e resta il nostro unico vero autore romantico, il corrispettivo italiano di Hugo, Goethe e Byron – un romantico certamente “strano” e in esplicito contrasto con un altrettanto bizzarro classicista come Leopardi. Per Nievo il suo era “il più grande libro del nostro secolo” e per il gran sacerdote della critica letteraria, De Sanctis, le opere di Manzoni “nella storia dell’arte inaugurano un’èra nuova, l’èra del reale”. Il tributo di stima pareva già universale. Regno sabaudo, dittatura fascista, Repubblica del dopoguerra si passeranno Manzoni di mano in mano come una fiaccola indiscussa. Anche all’estero, e fin dall’uscita delle prime edizioni, l’opera dello scrittore milanese era stata salutata con ammirazione da Goethe, Mary Shelley (“Above all, dear, get the Promessi sposi”), John Henry Newman: i due più celebri convertiti dell’800 si sfiorarono senza incontrarsi davvero, e lo scrittore fece consegnare come omaggio all’ecclesiastico che lo venerava una cesta di frutta (tra l’arcadico e lo stereotipo turistico, ma va bene così). Lo snobistico corteggiatore di Lucy in Camera con vista di E. M. Forster, annuncia il fidanzamento proclamando in italiano la frase “i promessi sposi!”.

Il libro era stato subito tradotto in francese, tedesco, inglese (l’edizione americana contava anche strafalcioni come “monti sorgenti dall’acque” ridotti banalmente a “mountains, source of waters”). Eppure, un acuto osservatore come Giovanni Verga, alla solenne celebrazione verdiana nel duomo di Milano a un anno dalla scomparsa di Manzoni, comunicava alla madre che il tutto era stato solo “uno spettacolo teatrale”, l’autorappresentazione di una “folla sbirciantesi con l’occhialetto”. Manzoni aveva vinto la sua battaglia innovatrice della cultura e della lingua, ma non la guerra. Il suo sperimentalismo era già stato assorbito dalla società. Raccontando gli esordi della sua casa editrice, Roberto Calasso fece riferimento a questioni che risalivano addirittura a quel periodo, apparentemente così lontano e slegato: “Vasta parte dell’essenziale mancava in Italia da ben più lungo tempo. Più o meno dal tempo dei primi romantici. Il Conciliatore non era l’equivalente dell’Atheneum di Novalis e degli Schlegel. L’Italia da centocinquant’anni era una storia di solitari grandiosi – come Leopardi, come Manzoni – intrappolati in un tessuto meschino, asfittico”. Come notava sempre Gino Tellini: “La profluvie del manzonismo nazionale non ha sortito che l’effetto di un’illusoria e finta familiarità, d’una cordialità sospetta. E ha reso lo scrittore non so se un eroe o una vittima, comunque un forzato della divulgazione, con pacifica etichettatura antonomastica dei suoi personaggi. Trionfale la carriera del dottor Azzecca-garbugli, che ancora oggi solletica il sorriso, invece di turbare la coscienza collettiva e farci arrossire. La cruda, quanto tragica, requisitoria di Manzoni contro l’inerzia intellettuale, contro la distorta amministrazione della giustizia, contro gli abusi e i soprusi del potere, si contrabbanda per mitezza ironica, per sorridente e blanda indulgenza. Riprova del capillare manzonismo diffuso in un paese come l’Italia, radicalmente antimanzoniano”.

Certamente, di citazioni manzoniane è piena l’operistica, e per tutto l’800 si sono anche alternati persino improbabili sequel (“Gli sposi fedeli”, “Lasco il bandito della Valsassina, sessant’anni dopo i Promessi sposi”, “I figli di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella”) tuttavia resta vero che il romanzo di Manzoni non ha mai goduto degli infiniti adattamenti cinematografici e musicali di altre opere archetipiche delle identità nazionali come David Copperfield, I Miserabili, Guerra e pace, un profluvio che continua ancora oggi. Perché il patetismo grottesco di Jean Valjean o della piccola Dorrit continua a colpire, emozionare, stimolare la creatività mentre le peripezie di Renzo e Lucia – assai più plausibili – suscitano così spesso una condiscendente alzata di sopracciglia per quella Provvidenza che pare mettere tutto a posto? Ci sono stati tentativi (talvolta solo vagheggiati, abbozzati: si pensi al sogno di Luchino Visconti d’una Monaca di Monza con Sophia Loren) di maggiore o minore successo e forza, come quelli di Nocita e Medioli, di Bolchi e Bacchelli, che però non hanno avuto né l’impatto né la fecondità che continuano a suscitare Notre-Dame o lo stesso Pinocchio, l’altro grande libro della nostra unità nazionale che proprio in queste settimane è stato nuovamente lanciato da Netflix e Guillermo del Toro nell’ambientazione fascista. La voce di Manzoni resta tanto unica, originale, quanto isolata. Alcuni dei progetti più ambiziosi – come il film di Visconti e Bassani, o addirittura la sceneggiatura di Pasolini – sono rimasti tali.

Resta il contrasto quasi schizofrenico tra un vessillo ufficiale della cultura scolastica e accademica, spesso brandita con populismo nostalgico, e il continuo ricorso allo stesso Manzoni in chi cercava un antidoto proprio dal cancro della retorica nazionale e stilistica nelle sue più diverse facce. Per Saba egli restava “il più sobrio dei poeti italiani” contrapposto all’ubriacatura dannunziana. Per Piovene leggerlo costituiva un “disinfettante mentale” e per Calvino uno strumento di difesa “dall’antilingua” del consumismo. Tutto fu sintetizzato mirabilmente da un suo grande ammiratore ed erede, Gadda, che lo contrappose allo sterile classicismo degli “endecasillabi beoti”, che continuano ad ammorbarci travestiti anche in tanto autocompiacimento contemporaneo: “[Manzoni] volle poi che il suo dire fosse quello che veramente ognun dice, ogni nato della sua molteplice terra, e non la rocca trombazza d’un idioma impossibile, che nessuno parla (sarebbe il male minore), che nessuno pensa, né rivolgendosi a sé, né alla sua ragazza, né a Dio”. Il già citato Pasolini, freudianamente, leggeva nell’austero padre della nazione la sua stessa attrazione omoerotica verso le classi proletarie: “Il rapporto tra il Manzoni e Renzo, ricorda un po’ quello di Ivan Il’ic nel racconto del Tolstoj con il suo giovane contadino: il ricco padrone malato trovava un po’ di sollievo dal suo male solo nella presenza di un ragazzo, suo servo (ma divinamente sano, rozzo e giovane, e quindi libero da lui e da ogni altro padrone, imprendibile, ‘altro’)”. Di tutte le interpretazioni possibili, questa è una di quelle che più si vorrebbe maliziosamente sottoporre all’austero scrittore stesso, e vedere che faccia farebbe. Testori, altro suo espressionistico erede – anche nella contaminazione dialettale – avrebbe sottoposto Manzoni “alla prova” del teatro contemporaneo e proprio negli anni della pandemia Luca Doninelli avrebbe riproposto una rilettura integrale del romanzo nel capoluogo lombardo, coinvolgendo attori, poeti, ecclesiastici, da Giacomo Poretti all’Arcivescovo Delpini.

Ripercorsa così, paradossalmente pare quasi la storia d’una vera e propria controcultura. Lo stesso Umberto Eco, che con l’operazione manzoniana dialogò fin dall’incipit del suo altrettanto fittizio manoscritto ritrovato del Nome della Rosa, consigliava ai ragazzi di leggere il libro sottobanco, come un fumetto o un giornalino porno, liberandolo dalle pastoie scolastiche. La parodia televisiva del Trio Lopez-Solenghi-Marchesini, con la Monaca di Monza col casco da pilota di Formula Uno, Agnese con l’antifurto che scatta se le si tocca il seno, Don Rodrigo che ripete sempre le stesse cose come nelle telenovelas americane o l’Innominato che sgambetta al ritmo di The Rocky Horror Picture Show, costituisce ancora oggi il tributo forse più intelligente, affettuoso e consapevole a una sorta di sentire comune: sono le stesse battute di intere generazioni di liceali costretti a inoltrarsi nel testo a sofferte cadenze settimanali, un viaggio che a posteriori risulta inscindibile dagli scherzi sui tic dei professori stessi, dagli strafalcioni alle interrogazioni, dalle griglie interpretative dei manuali coi loro insopportabili distinguo tra voce narrante e voce dei personaggi, discorsi indiretti liberi, analisi dello stacco lirico dell’Addio ai monti etc etc. Nella versione del Trio Lucia è davvero una “Madonnina infilzata” che, come nella battuta di Perpetua, gira con delle lucette in testa che sfarfallano intermittenti.

Alla luce di tutto questo, l’uscita dopo ben mezzo secolo d’una nuova traduzione inglese dei Promessi sposi costituisce davvero un fatto significativo. A firmarla è l’italianista Michael F. Moore per Modern Library. Il traduttore per primo si interroga sul lungo lasso di tempo che è intercorso tra una versione inglese e l’altra: “Gli studiosi hanno proposto varie teorie per questo paradosso, domandandosi, ad esempio, se il romanzo sia semplicemente ‘troppo italiano’ per un pubblico straniero, o se i suoi temi religiosi siano poco attraenti in sé. Alcuni mettono addirittura in dubbio la possibilità di tradurlo. Mentre ogni nuovo anno sembra presentare una nuova traduzione in inglese della Divina Commedia di Dante, pari a Manzoni nel canone italiano (e uno dei poeti più religiosi), questa è la prima nuova traduzione dei Promessi Sposi in mezzo secolo”. Tuttavia, proprio le circostanze storiche avevano con sinistra puntualità palesato quanto Manzoni abbia ancora da dire al nostro mondo: “Mentre mi preparavo a consegnare il manoscritto al mio sempre paziente editore, lo scoppio dell’epidemia di Covid-19 nei primi mesi del 2020 ha fatto rivivere in modo terrificante la descrizione manzoniana della peste bubbonica. Improvvisamente termini come distanziamento sociale e quarantena non erano più reliquie di un passato remoto, ma erano entrati nel nostro vocabolario quotidiano”.

Come ogni traduzione, anche quella di Moore costituisce una versione critica, la prima e più vasta delle interpretazioni, giacché in fondo ogni lettore “traduce” il testo nel suo cosmo interiore, e una versione in lingua straniera non fa che palesare questa perenne dinamica interiore. Per questo rileggere i Promessi sposi in inglese costituisce una esperienza ricca e spiazzante anche per un italiano madrelingua, che riconsegna la vastità e complessità della versione originale, sia nelle scelte più felici che in quelle più controverse e dibattibili, ma anche in questo sta appunto il pregio d’un simile esercizio di comparazione: “Ciò che rende la prosa di Manzoni così attraente è il modo in cui suona all’orecchio: il giro di frase memorabile, l’improvviso sovvertimento di un passaggio solenne con una battuta d’autore, le ellissi per segnalare pensieri troppo pericolosi per essere detti ad alta voce”. Proprio perché l’italiano manzoniano deve essere trasferito in un diverso sistema sintattico, ci si accorge maggiormente della sua sottile e magnifica complessità. Ciò supera ovviamente invenzioni celeberrime come i nomi parlanti (Azzecca-garbugli che diventa un dickensiano Argebaggle) o le frasi icastiche: “This marriage ain’t gonna happen. Not tomorrow, not never”. Si prenda l’incipit del romanzo, “Quel ramo del lago di Como…”, l’attacco lirico, scandito dalle liquide, il movimento di cinepresa che passa dall’astronomia alla geografia alla topografia alla storia, e che in inglese Moore rende più netto, rigido, come “The branch of Lake Como that turns south between two unbroken mountain chains”. Oppure il velo allusivo e pietoso che Manzoni stende sulla relazione illecita della Monaca, “La sventurata rispose”, laddove Moore preme invece tutto il peso tragico sull’aggettivo del complemento oggetto: “And she gave her fateful reply”. Oppure si pensi alla prima descrizione dell’Innominato – “Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano” – dove quel “grande” non è solo imponenza fisica, ma una più diffusa potenza caratteriale e morale, persino nel male, e che Moore invece delimita alla sfera meramente fisica: “He was tall, swarthy, and almost completely bald”. Altri passaggi, come tutta la gamma di variazioni con cui il nome di Ferrer viene accolto dalla folla in rivolta, sono resi anche in inglese con la loro ritmica sincopata: “Ferrer! Ferrer! Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione, una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega; chi benedice, chi bestemmia…” “Ferrer! Ferrer! Surprise, joy, rage, sympathy, or revulsion bursts out everywhere reached by that name. Some shout it, some want to stifle it, some proclaim it, some reject it, some bless it, some curse it”. In taluni casi, il traduttore preme addirittura la mano, come quando Manzoni scrive “i fornai respirarono, ma il popolo imbestialì” e Moore contrappone due sbuffi, quello di sollievo e l’ululato di rabbia: “The bakers breathed a sigh of relief. The people howled with rage”.

Bisogna dunque augurarsi che anche un’operazione culturale importante e meritoria come quella di Moore – ogni traduzione sostiene e alimenta il sistema circolatorio del mondo intellettuale, come notò Susan Sontang – perché anche in Italia si torni a discutere, fuori dai convegni accademici, sul peso che ancora oggi Manzoni esercita sui nostri tentativi letterari, su quanto sia davvero possibile rifare oggi quanto egli ha ottenuto e stabilito. Come sintetizzò qualche anno fa Simone Barillari sull’Indiscreto: “La domanda che resta da porsi è questa: è possibile scrivere un grande romanzo nazionale nell’italiano neostandard che parliamo oggi?”. Un’opera come quella di Manzoni difatti “presuppone un’Epica di popolo. Ora molti di questi presupposti sono in crisi, e in particolare il rapporto fra opere letterarie e società nazionali non ha spesso l’efficacia di un tempo. Naturalmente sono molti i romanzi italiani che descrivono bene questo o quell’aspetto della società attuale, però spesso il pubblico apprezza quelli che mettono in scena personaggi e vicende accattivanti. Non credo che su questa strada si possa arrivare a un Grande romanzo, che d’altra parte dovrebbe raggiungere una valenza rappresentativa ampia anche presso il pubblico generalista e non solo presso gli specialisti”.

I sentieri nel bosco si dividono. L’altro gran padre e fabbro della lingua e letteratura nazionale, Dante, già citato per contrasto, è stato spesso ripreso come riferimento da Pasolini, Siti, Moresco per azzardare nuovi percorsi metafisici, spesso in legame con suggestioni che provenivano da altre prospettive intellettuali, europee o internazionali. La sintesi realizzata da Manzoni si è invece scomposta e frazionata. Molti nomi sono già stati citati. La colonna infame con la sua analisi psicologica del plasmarsi degli eventi storici, delle ossessioni e delle fobie, arriva fino ai saggi di Wu Ming 1 sul neocomplottismo americano, alla Roma omicida di Lagioia, alle inchieste di Leogrande: “Il mezzo, e l’unico mezzo che uno abbia di rappresentare uno stato dell’umanità, come tutto ciò che ci può essere di rappresentabile con la parola, è di trasmetterne il concetto quale è arrivato a formarselo, coi diversi gradi o di certezza o di probabilità che ha potuto scoprire nelle diverse cose, con le limitazioni, con le deficienze che ha trovato in esse”. L’affresco storico per palesare dinamiche che approdano fino al presente viene ripreso ancora una volta da Wu Ming, Evangelisti, Banti. La crescita picaresca del singolo prosegue in Santoni o Mari. E potremmo continuare così per l’analisi dei rapporti di potere, la violenza delle parole, il conflitto tra razionalità e sconcertante, l’impegno civile, lo sperimentalismo linguistico… Come fu però notato dal critico Marco Simonetti, tutto questo ormai si esprime in testi di una comunità ma non della comunità in quanto tale. Si scrive per questo o quel gruppo, per questa o quella identità culturale o sociale, senza più tracciare un arco che va dai filatori di tessuti al Cardinale. Domandarsi se ciò sia giusto o sbagliato, se costituisca un avanzamento o una contrazione, non ha senso, perché la letteratura non procede in linea retta. Prenderne atto è però salutare. “E’ il nostro privilegio, o il nostro peso, se non lo vogliamo accettare come privilegio, l’esser messi tra la verità e l’inquietudine”.

In Manzoni questo duetto drammatico comprendeva il rapporto tra singolo e popolo, una religione comunitaria e quindi una prospettiva metafisica dell’esistenza, un senso ultimo delle cose, che giudichi il pubblico e il privato e su cui proiettare sfide, nodi tragici, irrisolti per lo stesso autore. In una società come quella italiana contemporanea, nella quale tanto si riverbera della più diffusa crisi dell’universo secolarizzato, un mondo nuovo che per la prima volta vive e sussiste solo delle proprie strutture e meccanismi, simili domande e tensioni sembrano non potersi più porre nello stesso modo, se si pongono affatto. Fosse solo per eco e rifrazione, sminuzzamento e parodia, dunque, quel più vasto orizzonte comune resta ancora abbracciato e descritto proprio dallo sguardo ironico e sofferente del cattolico illuminista. Uno dei pochi strumenti che abbiamo per comprendere le nostre parziali e frammentarie differenze nello sviluppare una lettura e una narrazione alternativa del nostro paese e di una supposta identità comune forse sta proprio nel notare quanto ancora ci limitiamo a premere questo o quell’elemento della sua: “Gran Dio, questo flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna già maledetta”, scriveva già nel Fermo e Lucia.

DI EDOARDO RIALTI

Figlio di Pietro Manzoni, piccolo nobile ricco e amante di arte e poesia da dilettante démodé, e della vivace Giulia Beccaria, intelligente e audace figlia del celeberrimo e mai abbastanza apprezzato Cesare, autore “Dei delitti e delle pene”. Chiacchiere sulla vera paternità di Lisander. Il perfido e malevolo Tommaseo berciava pubblicamente che il vero padre del ragazzo (non ancora monumento) fosse Giovanni Verri, audace libertino amante storico di Giulia prima che la bellissima donna lasciasse il marito per andarsene a vivere a Parigi con Carlo Imbonati, lasciando il giovane Alessandro in collegio. Poi raggiungerà la madre all’età di vent’anni e non le farà mancare le preoccupazioni essendo assai nervoso e fortemente edipico. Così l’astuta e pragmatica Giulia decide che il figlio abbia da prender moglie. Poco importa se la giovane Enrichetta Blondel è calvinista. Così a soli ventitré anni Alessandro impalma la diciassettenne Enrichetta prima con rito civile e poi di religione calvinista.

Nel 1810 conversione al cattolicesimo e conseguente rito cattolico. Dieci figli dei quali solo due sopravviveranno al padre.
Verso i trent’anni “afflitto da balbettamento organico e nervoso” che gli impedisce di svolgere autentica vita pubblica, Alessandro deve essere sempre accompagnato nelle sue uscite. Indossa una maschera conformistica per paludare attacchi di panico continui. Esplodono balbuzie ed agorafobia che non lo lasceranno sino alla morte. Svenimenti, crisi di panico, ipocondria, insonnia cronica, ossessione per il romanzo in cantiere continuamente aperto e rielaborato. Nel 1822 pubblica “Fermo e Lucia”, poi lo rielabora tra il ‘23 e il ‘27, poi per dieci anni lo corregge in modo maniacale. Intanto, sfinita dai parti continui e dalla cecità, nel 1833 Enrichetta muore. La solita Giulia convince il figlio a risposarsi con l’energica e assai pragmatica Teresa Grossi. Il romanzo, finalmente “I promessi sposi” esce nel ‘40, un anno prima della morte di Giulia. Da questo momento silenzio. Era morta l’unica donna che avesse veramente amato nella sua vita.
Il gran romanzo va letto e riletto continuamente ed è impossibile comprenderne la infinita grandezza prima dell’età matura. È il libro scritto da un giovane vecchio che deve difendersi dalla nevrosi probabilmente covata in collegio ed esplosa a trent’anni. Letture psicoanalitiche novecentesche abbondano così come quelle ideologiche. Personalmente non le gradisco punto, le trovo spesso esagerate e onanistiche. Certo è discutibile l’imposizione della lettura di tal romanzo a soli quindici anni. Credo che tutto ciò che è imposizione sia discutibile e deprecabile. Ma se si ha la fortuna, che io ho avuto, di incontrare un eccellente professore, anche la prima lettura scolastica può essere di buon auspicio per il futuro. Difficile comunque apprezzarne le meravigliose ed ardite costruzioni prima dei cinquant’anni. Così come è complicato leggere nelle pieghe più profonde l’Adelchi, i suoi dolorosi pensieri, le sue tremende riflessioni sulla Storia, la natura umana, la quasi totale assenza di luce, il carattere vile degli italiani, l’accadere continuo del Male, la Violenza che innesca violenza, il mancato messaggio di Cristo, la sopravvivenza dei vinti e la feroce volontà di dominio dei vincitori. È possibile soltanto una felicità negativa legata alla forza… “Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto: la man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue; e omai la terra altra messe non dà. Reggere iniqui dolce non è; tu l’hai provato: e fosse; non dee finir così? Questo felice, cui la madre morte fa più fermo il soglio, cui tutto arride, tutto palude e serve, questi è un uom che morrà”.
manzoni adelchi
Passi di sapienza gnostica nei quali emerge il trionfo della durissima Realtà Materiale. Un’anticipazione dell’immenso Kafka dove il diritto è la Menzogna che garantisce il mito sacrificale del capro espiatorio celandolo con la Legge.
Il 6 gennaio 1873, all’uscita dalla chiesa di San Fedele di Milano, l’anziano Manzoni cade e batte la testa. Non lo aiuta apprendere la notizia della morte del figlio maggiore. Dopo qualche giorno entra in stato catatonico. Nel pomeriggio del 22 maggio muore.
Ai solenni funerali del Senatore, celebrati in Duomo il 29, partecipano le massime autorità dello Stato, tra cui il futuro re Umberto I, il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta e le rappresentanze della Camera, del Senato, delle Province e delle Città del Regno. Così scrive Venosta “Per le strade un gridio di venditori di fotografie del gran poeta, di ritratti d’ogni formato, d’ogni prezzo… Le pareti delle case erano tappezzate di avvisi portanti il nome del Manzoni […] gli uomini erano tutti nelle vie, e metà Milano, a non esagerare, volle seguire il feretro al Cimitero”
I cattolici intransigenti non si uniscono al generale cordoglio.
Don Davide Albertario, uno dei più accaniti oppositori della religiosità e dell’opera manzoniana, scrive “Manzoni non iscorse o non volle iscorgere l’inganno che la rivoluzione nascondeva alle promesse di unità italiana […] Egli pertanto non si unì ai difensori della fede; lasciò in disparte gli alti interessi del cattolico e fece proprii quelli della rivoluzione; non per questo rinnegò il cattolicismo, ma lo portò seco nel campo nemico, ed i nemici accolsero con plauso lui e il divin prigioniero [il Papa, n.d.a].“
Benedetto Croce, nel 1941, ricorda come ancora a distanza di anni dopo la morte di Manzoni i cattolici “intransigenti” facessero sentire la loro voce tramite quella di Giovanni Papini “Alessandro Manzoni, ricco dei più velenosi succhi dell’illuminismo francese, non vede nel Cattolicesimo se non un umanitarismo sociale con dei riti da godere più che da approfondire; aspetta che sian morti tutti i giansenisti italiani per disdire le sue prime tentazioni di schifiltoso rigorista, e nemmeno le disdice; rappresenta un Vescovo talmente grande che è difficile trovarlo nella vita e nella storia, fuorché nei Santi, mentre il suo santo non è; rappresenta un frate, dissimile troppo dai suoi pari e superiori; una suora omicida, lussuriosa e manutengola; rappresenta un parroco tanto vile che san Giovanni Bosco non glielo perdonerà mai; non dice una parola, nella sua lunga vita, a difesa del Pontificato romano nell’Ottocento, sfidando condanne autentiche della Santa Sede, a cui obbedivano, pur soffrendo, Vescovi, sacerdoti, laici; e nonostante tutto questo, tutti i cattolici lo considerano lo scrittore cattolico per eccellenza e qualcuno addirittura lo proporrebbe volentieri per santo.” Insomma una condanna senza appello in linea con la critica ideologica della vulgata “sinistra“.
Tra coloro che lo apprezzano invece troviamo il grande Giuseppe Verdi che nel 1874, nel primo anniversario della morte, dirige personalmente nella chiesa di San Marco di Milano la Messa di requiem, composta per onorarne la memoria.
Poco mi interessano le critiche malevole e superficiali o dettate da livore ideologico. Ciò che mi interessa sono gli studi seri, attenti e rigorosi di critici come Carlo Emilio Gadda, capace di demolire il sopravvalutato e malevolo Moravia, Luigi Russo, Giovanni Getto, Lanfranco Caretti, Ezio Raimondi. Grazie a questi studiosi si è scrostato Manzoni dalla patina di pregiudizio ideologico.
Si può intuire la grandezza di Manzoni guardando un film di Ermanno Olmi, “Il mestiere delle armi”,rigoroso, filologico, secco, triste, buio… non vi è luce divina sulla terra… solo freddo e nebbia, fatica e dolore. Meditazione sulla Storia, sulla Guerra, sulla Morte. Volutamente lento come la nostra sofferenza, intelligente, profondo, ricco di umana compassione. Un film manzoniano sino al midollo. Da Manzoni ho imparato molto, con lentezza, sacrificio, impegno, attenta lettura. Manzoni è come i grandi amori che durano una vita ma si palesano in tutta la loro evidenza soltanto in un attimo, somma di lentezza, pazienza, abnegazione, silenzio e comprensione. Ormai sono consapevole che soltanto un debole raggio di luce può illuminare tenuemente una strada densa di buio e nebbia. Però quella timida luce ancora esiste.

I Promessi sposi

“[…] Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso, mi sembra poter esser questo: Che la poesia, e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo.”
(Alessandro Manzoni, Lettera sul romanticismo)

Dal sottotitolo, Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da A. M., si comprende il legame con la narrativa storica assai diffusa nell’Ottocento sul modello di Ivanhoe di Walter Scott. Ricerche di storia locale lombarda, opere di Giuseppe Ripamonti, pretesto narrativo dell’historia di Anonimo, modelli nobili quali Don Quijote. Tutto si gioca sul filo di storia ed invenzione. Prima stesura tra il 1821 e ‘23, Fermo e Lucia con un’appendice, La storia della Colonna Infame, con discussione sul processo agli “untori” durante la peste del 1630. Insoddisfazione per il lavoro. Fermo Spolino e Lucia Zarella divengono Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, intere parti vengono trasformate dopo lunghe discussioni con gli amici Claude Fauriel ed Ermes Visconti. Si giunge così alla Ventisettana. Per tredici anni revisione continua per giungere ad una lingua viva che coincidesse col fiorentino parlato dalle persone colte. Risciacquare i panni in Arno. Nel 1840 gli editori milanesi Guglielmini e Redaelli stampano il romanzo in 180 fascicoli con illustrazioni di Francesco Gonin e l’appendice sulla Colonna Infame. Venti anni di lavoro faticoso, dal 1821 al 1842, per consegnare all’Italia un romanzo moderno e rivolto ad un pubblico più ampio rispetto al passato. Tanto è vero che la prima critica arriva dal poeta neoclassico Vincenzo Monti “non avrà fortuna questo libro, perché troppo dotto per gli umili e troppo umile per i dotti”. Non poteva, involontariamente, fargli miglior complimento. La trama si snoda per trentotto capitoli, dal 7 novembre 1628, quando il pavido Don Abbondio viene minacciato dai bravi di Don Rodrigo. Troppo noti gli avvenimenti per raccontarli in questa sede. Dalla separazione dei due giovani dovuta al bullo spagnolo alla separazione dovuta alla Peste, vera protagonista del romanzo. Muoiono Don Rodrigo, il perfido Conte Attilio, Perpetua. Si salvano miracolosamente don Abbondio e Lucia. I due Promessi si ritrovano nel lazzaretto dove Padre Cristoforo scioglie il voto di Lucia. Finalmente don Abbondio li unirà in matrimonio.
Tema della fanciulla perseguitata sul modello di Rebecca rapita dal templare Brian de Bois-Guilbert o di Esmeralda rapita da Claude Frollo.

Altissima qualità artistica. Si legge Seicento ma si comprende Ottocento. Analisi potente dei rapporti di forza tra le classi sociali. Genti meccaniche e di piccol affare protagoniste del romanzo. Melodramma sentimentale alla Goethe, fusione di Shakespeare e Pascal, senso della tragedia, comprensione che può scaturire soltanto dalla sofferenza, rassegnazione non disarmata, romanzi diversi nel romanzo. Capacità di rovesciare il tavolo e far emergere figure da romanzo gotico come Gertrude e l’Innominato in modo potente e di dura critica agli sciagurati costumi del tempo. Fine introspezione psicologica di Manzoni sul rimorso, distacco nella costruzione di alcune figure, simpatia malcelata per il combattente Cristoforo. Finezza ineguagliabile nella descrizione del colloquio di potere tra il Conte zio e il Padre provinciale dei Cappuccini. Potenza tragica nel descrivere la violenza della peste, la strage degli innocenti (Cecilia), il saccheggio dei lanzi. Tutto si gioca sul contrasto tra religiosità e pensiero dei Lumi, tra Apocalisse e Rinascita, guazzabuglio e chiarezza. Punto mi interessano le polemiche astiose sul romanzo. La sua grandezza viene testimoniata da Scott, Goethe, Lamartine, Poe, Mann, Gadda… tanto basta. Persino il marxista György Lukács nel saggio Der historische Roman del 1957 coglie il punto decisivo “la tragedia del popolo italiano”. Una tragedia che non è giunta al termine. Possiamo invece discutere dell’uso scolastico del romanzo come parenetica cattolica. Poi è certo che la letteratura italiana del primo Ottocento non è granché sul piano internazionale ma casomai sarebbe da dire “per fortuna abbiamo i Promessi sposi”. In ogni caso il romanzo manzoniano, assieme alla lirica leopardiana, rappresenta il meglio che il nostro povero e sciagurato paese possiede.

“…la poesia: si, la poesia. Perché, alla fin fine, che cosa ci dà la storia? ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno: ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e le loro volontà su altre passioni o su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro tristezza, coi quali, in una parola, hanno rivelato la loro personalità: tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia.”
(Manzoni, scritti di teoria letteraria)

J.V.

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