PERCHÉ NON SCRIVO UN ROMANZO OVVERO QUALCHE SPUNTO SULLA PERICOLOSITÀ DELLA SUPERBIA E DELLA TECHNE… E DELLA CATTIVA INFORMAZIONE

PERCHÉ NON SCRIVO UN ROMANZO OVVERO QUALCHE SPUNTO SULLA PERICOLOSITÀ DELLA SUPERBIA E DELLA TECHNE… E DELLA CATTIVA INFORMAZIONE

Perché non sono degno di tale compito. Sarà sufficiente la lettura di questo passo dell’immenso Manzoni per averne contezza. Dopo aver letto una tale bellezza quale demone può spingerci alla presunzione infinita di ritenerci in grado di scrivere un romanzo? Posso scrivere un articolo, forse un pezzo per una rivista storica… forse. Ma un romanzo no. La lettura di Balzac, Dostoevskij, Manzoni mi illumina sulla mia infinita piccolezza. Sono orgoglioso di ciò che leggo non di ciò che scrivo parafrasando Borges. Riporto questo passo dei Promessi Sposi per altri due motivi. Il primo riguarda coloro, e ne ho conosciuti molti, che disprezzano questo romanzo. Pentitevi finché siete in tempo altrimenti verrete conficcati nel Cocito per l’eternità. Il secondo, più importante, spogliatevi di orgoglio e arroganza. Tutto qui. Perché vi scrivo queste bagattelle? Perché nella mia miserabile condizione non posso far altro. Ironizzate pure e prendetemi per vecchio rincoglionito quale forse sono veramente ma riflettete su questa pagina, allontanatevi dalla Superbia e guardate… Il mestiere delle armi.

“Saliti entrambi, il cappellano aperse la portiera e intromise l’innominato. Federigo gli venne incontro con un volto premuroso e sereno, e colle palme tese dinanzi, come ad un aspettato; e tosto fe’ cenno al cappellano che uscisse: il quale obedì.
I due rimasti stettero alquanto taciti e diversamente sospesi. L’innominato, che era stato quivi portato, come per forza, da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, vi stava anche come per forza, straziato da due opposte passioni: quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna del venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile a confessarsi in colpa, ad implorare un uomo: e non trovava parole, nè quasi ne cercava. Però, levando gli occhi al volto di quell’uomo, si sentiva più e più comprendere da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave che, crescendo la fiducia, addolciva il dispetto, e senza affrontar l’orgoglio, lo faceva dar luogo e tacere.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non punto incurvato nè impigrito dagli anni: l’occhio grave e vivido, la fronte schietta e pensosa; nella canizie, nel pallore, fra le tracce dell’astinenza, della meditazione, della fatica pure una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che in altre età v’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza: l’abitudine dei pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.
Egli pure tenne un istante fisso nell’aspetto dell’innominato il suo sguardo penetrante ed esercitato di lunga mano a ritrarre dai sembianti i pensieri; e sotto a quel fosco e a quel turbato parendogli di scoprire sempre più qualche cosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio di una tal visita, tutto animato, “oh!” disse: “che gioconda visita è questa! e quanto vi debbo esser grato d’una sì buona risoluzione, quantunque per me ella abbia un po’ del rimprovero!”
“Rimprovero!” sclamò il signore maravigliato, ma indolcito da quelle parole e da quel modo, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.
“Certo, m’è un rimprovero,” riprese questi, “ch’io mi sia lasciato prevenire da voi; quando da tanto tempo, tante volte, avrei potuto, avrei dovuto venir, da voi io.”
“Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno ben detto il mio nome?”
“E questa consolazione ch’io sento, e che certo vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch’io dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno sconosciuto? Voi siete che me la fate provare; voi, dico, che io avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi dei miei figli, che pur tutti amo e di cuore, quello che avrei più desiderato di accogliere e di abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi.”
L’innominato stava attonito a quel porgere così infiammato, a quelle parole che rispondevano tanto risolutamente a ciò ch’egli non aveva ancor detto, nè era ben deliberato di dire; e commosso ma sbalordito, taceva. “E che?” ripigliò ancor più affettuosamente Federigo: “voi avete una buona nuova da darmi; e me la fate tanto sospirare?”
“Una buona nuova? Io! Ho l’inferno nel cuore; vi darò una buona nuova? Dite voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.”
“Che Dio vi ha toccato il cuore, e vuol farvi suo,” rispose pacatamente il cardinale.
“Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”
“Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi lo ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che vi opprime, che vi agita che non vi lascia stare, e nello stesso tempo vi attira, vi fa presentire una speranza, di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, tosto che voi lo riconosciate, lo confessiate, lo imploriate?”
“Oh, certo! ho qui qualche cosa che mi opprime, che mi divora! Ma Dio! Se c’è questo Dio, se è, quegli che dicono, che volete che faccia di me?”
Queste parole furono dette con un accento disperato; ma Federigo con un tuono solenne, come di placida inspirazione, rispose: “che può far Dio di voi? Che vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che altri non gli potrebbe dare. Che il mondo grida da tanto tempo contro di voi che mille e mille voci detestino le vostre opere…” (l’innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento a udirsi parlare quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non sentirne sdegno, anzi quasi un sollievo “che gloria,” proseguiva Federigo, “ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d’interesse; voci fors’anche di giustizia, ma di una giustizia così facile! così naturale! alcune forse, pur troppo, d’invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta fino ad oggi deplorabile sicurtà d’animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate che cosa Dio possa fare di voi? Chi son io, pover’uomo, che sappia dirvi fin d’ora che profitto, possa cavar da voi un tal Signore? che cosa Egli possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover uomo, che vi pensiate d’aver saputo da per voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Che cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? E farvi salvo? E compiere in voi l’opera della redenzione? Non sono elle cose magnifiche, e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è testimonio questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m’infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quegli che mi comanda e m’inspira un amore per voi che mi divora!”
A misura che queste parole uscivano dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da prima attonita e intenta; poi si compose, ad una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi che dall’infanzia più non conoscevano le lagrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, egli si coperse colle mani il volto e scoppiò in un pianto dirotto, che fu come l’ultima e più chiara risposta.
“Dio grande e buono!” sclamò Federigo, levando gli occhi e le mani al cielo: “che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perchè voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perchè mi faceste degno di assistere ad un sì giocondo prodigio!” Così dicendo, stese la mano a prender quella dell’innominato.

“No!” gridò questi, “no! lontano, lontano da me, voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.”
“Lasciate,” disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, “lasciate ch’io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.”
“È troppo!” disse, singhiozzando, l’innominato. “Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato vi aspetta; tante anime buone, tanti innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per udirvi: e voi vi trattenete… con chi!”
“Lasciamo le novantanove pecorelle,” rispose il cardinale: “sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita. Quelle anime son forse ora ben più contente, che del vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde ora in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito pone nei loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch’egli esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l’oggetto non ancor conosciuto.” Così dicendo, stese le braccia al collo dell’innominato; il quale dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anch’egli il cardinale, e abbandonò su l’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lagrime ardenti cadevano su la porpora incontaminata di Federigo, e le mani incolpevoli di questo strignevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca avvezza a portar le armi della violenza e del tradimento.
L’innominato sciogliendosi da quell’abbraccio, si coperse di nuovo gli occhi con una mano, e levando insieme la faccia, sclamò: “Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno dinanzi; ho ribrezzo di me stesso; eppure……! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì, una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!”
“È un saggio,” disse Federigo, “che Dio vi dà, per cattivarvi al suo servigio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere!”
“Me sventurato!” sclamò il signore: “quante, quante….. cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d’intraprese, di appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho che posso romper tosto, disfare, riparare.”
Federigo si fece attento; e l’innominato raccontò brevemente, ma con termini forse più efficaci d’esecrazione che non abbiam fatto noi, la sua impresa sopra Lucia, i patimenti, i terrori della poveretta, e come ella aveva implorato, e la smania che quell’implorare aveva messa addosso a lui, e come ella era ancor nel castello….
“Ah, non perdiam tempo!” sclamò Federigo ansante di pietà e di sollecitudine. “Beato voi! Questa è arra del perdono di Dio! far che possiate diventar stromento di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi benedica! Dio v’ha benedetto! Sapete d’onde sia questa nostra povera travagliata?”
Il signore nominò il paese di Lucia.
(Promessi Sposi, cap. XXIII)

“Non bestemmiare contro Buddha e gli dei. Sono loro che piangono, per i delitti che gli uomini compiono per la loro stupidità, perché credono che la loro sopravvivenza dipenda dall’assassinio degli altri ripetuto all’infinito. Non piangere, il mondo è fatto così. Gli uomini cercano il dolore, non la gioia. Preferiscono la sofferenza alla pace. Guardali, questi stupidi esseri umani, che si battono per il dolore, si esaltano per la sofferenza e si compiacciono dell’assassinio!”
(Così il Samurai al giullare in Ran di Akira Kurosawa)

“Amate l’uomo anche nel suo peccato, giacché proprio questo è l’amore divino e la forma suprema dell’amore sulla terra. Amate l’intera creazione come ciascun granello di sabbia. Amate ogni fogliolina, ogni raggio divino. Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa. Se amerete ogni cosa, in ogni cosa coglierete il mistero di Dio. E una volta che lo avrete colto, lo comprenderete ogni giorno di più. Arriverete, finalmente, ad amare tutto il mondo di un amore totale”
(Così lo Starec Zosima nei Karamazov)

Davvero penso che nessuno si sia avvicinato a Dio quanto Spinoza. Siamo assai distanti da lui e purtroppo stiamo correndo verso la catastrofe tecnologica. Forse Dio sì è stancato di noi, della nostra stupidità, della nostra arroganza da novelli Nembroth. Noto che tutti sanno tutto. Persone che non hanno letto un libro in vita loro esprimono opinioni su qualsiasi cosa. Ignoranza, dilettantismo, chiacchiera si sono impadroniti del mondo. I saggi vengono zittiti dal rumore assordante di giornali e televisione. La pessima informazione getta in pasto al mostro del nostro tempo, l’opinione pubblica, notizie e argomenti diversi e non conta che siano veri o falsi. Occorre eccitare le persone, farle arrabbiare. Animalisti contro cacciatori, black power contro suprematisti, attivisti gay contro neonazisti, favorevoli e contrari al vaccino, giustizialisti contro garantisti e avanti così, senza pensiero, senza riflettere, senza un minimo di cultura. La scomparsa del Sacro nel secolo passato ha scatenato i demoni Stalin e Hitler e preparato il teatro assurdo e bugiardo nel quale viviamo oggi. Dai gulag e dai lager all’intrattenimento, all’insensibilità verso i poveri cristi e alla mancanza di pudore, al politicamente corretto totalitario che ammorba le nostre esistenze.
E allora che romanzo si può scrivere? Nel secolo passato Musil optò per il non-romanzo. Forse potrà salvarci la poesia? Non lo so, me lo chiedo leggendo René Char “Non lasciar la cura di governare il tuo cuore a quelle tenerezze parenti dell’autunno, da cui han preso il placido andare e l’affabile agonia. L’occhio è precoce nell’avvizzire. La sofferenza conosce poche parole. Preferisci coricarti senza fardello: sognerai il domani e ti sarà lieve il letto. Sognerai che la tua casa non ha piú vetri. Sei impaziente d’unirti al vento, al vento che percorre un anno in una notte. Altri canteranno la melodiosa incarnazione, le carni che personificano soltanto la stregoneria della clessidra. Condannerai la gratitudine che si ripete. Piú tardi, sarai identificato a qualche disgregato gigante, signore dell’impossibile.
Eppure.
Non hai fatto che aumentare il peso della tua notte. Sei tornato alla pesca di muraglie, alla canicola senza estate. Sei furibondo contro il tuo amore al centro d’un’intesa che perde il senno. Pensa alla casa perfetta che mai vedrai alzarsi. A quando il raccolto dell’abisso? Ma tu hai cavato gli occhi al leone. Credi di veder passare la bellezza sopra nere lavande…
Cos’è che t’ha issato, ancora una volta, un poco piú in alto, senza convincerti?
Non v’è seggio puro.

René Char, Io abito un dolore
(Traduzione di Giorgio Caproni)

Francamente penso di no…

J.V.

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