IL SUICIDIO DELL’UOMO BRACCATO DAL PROGRAMMA IENE, MA QUALE ERRORE?!UN MODO DI FARE GIORNALISMO

IL SUICIDIO DELL’UOMO BRACCATO DAL PROGRAMMA
IENE, MA QUALE ERRORE?!
UN MODO DI FARE GIORNALISMO
È un giornalismo che ha bisogno vitale del momento “spettacolare”, senza il quale l’inchiesta perderebbe larga parte del suo interesse: e quel momento è, puntualmente, lo sputtanamento del colpevole

Il suicidio dell’uomo braccato e linciato in favore di telecamera dai giornalisti della trasmissione “Le Iene” dovrebbe, più che porre interrogativi, segnare semplicemente un punto di non ritorno. Dovrebbe, perché questo non accadrà. Già non sta accadendo. Si apre qui e là qualche riflessione, mentre l’editore alza il sopracciglio e – dopo aver difeso il modo di fare giornalismo della sua trasmissione – si limita a farci sapere che quel suicidio disperato della preda dei suoi amati giornalisti di inchiesta “non deve più succedere”. E che questo è successo perché “capita di andare oltre ciò che è editorialmente giusto”. Ma sia ben chiaro, ammonisce, “dire basta ad un certo tipo di giornalismo sarebbe come tornare indietro invece che andare avanti. Ma il punto è come viene fatto, servono attenzione e sensibilità, non è facile… dico che quella cosa lì non mi è piaciuta”.
“Quella cosa lì”, come la chiama Piersilvio Berlusconi, è invece la regola, la cifra e la ragione stessa di quel giornalismo. Se poi il soggetto esposto voluttuosamente al pubblico ludibrio si suicida e un altro no, dott. Berlusconi, è questione del tutto indipendente ed eventuale. C’è chi riesce a sopravvivere al proprio linciaggio, e chi no.
Vediamolo allora, questo “certo tipo di giornalismo”, così orgogliosamente rivendicato dal suo editore, tornando indietro dal quale cadremmo, se ho ben capito, nelle tenebre più profonde della inciviltà. Nulla da dire sulla prima parte del metodo: accade un fatto di cronaca, o si viene raggiunti dalla notizia di un fatto grave che starebbe accadendo (una truffa, un sopruso, una violenza) e si indaga giornalisticamente su di esso. Raccogliere notizie, riscontrarle, rendere pubbliche le testimonianze raccolte, sollecitare o determinare l’attenzione dell’autorità giudiziaria, è la ragione stessa del giornalismo di inchiesta. Il marcio (perché di questo si tratta) arriva dopo, ed è appunto la “presa al laccio”, come nelle migliori tecniche di linciaggio, del presunto colpevole. È infatti un giornalismo, questo, che ha bisogno vitale del momento “spettacolare”, senza il quale l’inchiesta perderebbe larga parte del suo interesse: e quel momento è, puntualmente, lo sputtanamento del “colpevole”.
Già la premessa contiene in sé i batteri micidiali del marciume. Chi sia il colpevole, quanto sia colpevole, come e perché sia colpevole, lo decide la redazione. Perché queste inchieste si nutrono della colpevolezza di qualcuno, sia essa decisa dalla redazione, sia essa ipotizzata da una Procura della Repubblica. Ai fini dello spettacolo da imbastire, i nostri eroi se lo fanno ampiamente bastare. E d’altro canto funziona così: la riprovazione, la indignazione popolare, quella tossica, l’unica che funziona e crea ascolti, è quella alimentata dal sospetto. Che inchiesta sarebbe, che gioco sarebbe, se si dovesse prendere al laccio un colpevole vero, cioè accertato come tale da un giudizio penale? Che noia, parliamoci chiaro. È il sospetto che ci inferocisce, è l’idea di averti scoperto e sputtanato in diretta televisiva, brutto bastardo che pensavi di farla franca, a dare l’adrenalina al giornalista-segugio, ed a noi guardoni. Fatecelo vedere, il bastardo. Vediamo come si giustifica, come balbetta, come suda, come si spaventa. Fammi vedere come si dimena, una volta caduto in trappola.
La cosa spaventosa è che la convenzione sociale prevalente è in linea con questa idea malata, sovvertitrice di ogni parametro costituzionale e di ogni elementare sentimento di umanità. Il capo di imputazione lo scrive la redazione de Le Iene, la sentenza la pronunciamo tutti noi, sbavando, non in nome del popolo italiano ma a furor di popolo, vuoi mettere.


Noi ancora non abbiamo capito né perché si sia suicidato il ragazzo ingannato on line ed innamoratosi perdutamente (a quanto si dice) del falso profilo messo su dal “carnefice”, né perché costui lo abbia fatto (un gioco erotico assai cervellotico? Un tentativo di truffa finito male? Un passatempo idiota? Boh). Sta di fatto che, a tutto concedere, quell’uomo avrebbe dovuto rispondere di sostituzione di persona, reato minore, davanti alla giustizia ordinaria. Ma potrebbe mai la giustizia mediatica accontentarsi di un esito così modesto e burocratico, quando abbiamo per le mani un suicidio come conseguenza di quella “sostituzione di persona”? Non scherziamo. Il Tribunale mediatico esercita la sua giustizia ed infligge le sue sanzioni senza tanti inutili orpelli. Quell’altra, celebrata da giudici e avvocati, è una legalità soporifera, formalistica, costituzionale e bla bla bla, noi altri si va per le spicce. Prendi il bastardo al laccio, e trascinalo sugli schermi, questa è l’unica giustizia che funziona, la giustizia a furor di popolo. Ci scappa il suicidio? Pazienza. Lacrimuccia, facce compunte, “quella cosa lì non ci è piaciuta”, e ripartiamo con la prossima inchiesta. Il laccio è pronto per il collo del prossimo bastardo.
(Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione Camere Penali)

La gogna mediatica è una delle pratiche più incivili e spaventose del nostro mondo. Sono colpevoli i giornalisti (si fa per dire) che la mettono in atto e tutti coloro che non la condannano duramente. Purtroppo molti partecipano con gusto a questa pratica umiliante e degradante. Alcune vittime resistono soffrendo atrocemente, altri non resistono e si suicidano. I giornalisti veri (forse ne esistono ancora) dovrebbero essere i primi a prendere posizione contro i riti barbarici e invece quasi sempre tacciono per non urtare i loro famigerati colleghi. Il fenomeno è trasversale e riguarda destra e sinistra. Nessuno è innocente. I peggiori si rifugiano dietro il puzzolente paravento della “libertà di informazione… i lettori devono sapere”. L’ingenuo e buono Nietzsche scriveva “Gli insetti pungono non per cattiveria, ma perché anch’essi vogliono vivere; così pure i critici: vogliono il nostro sangue, non il nostro dolore.“ Si sbagliava: vogliono proprio il nostro dolore perché questo li fa stare meglio, li distrae dal loro squallore.

J.V.

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