APPUNTI SULLA CONTESTAZIONE ALLA MINISTRA ROCCELLA

APPUNTI SULLA CONTESTAZIONE ALLA MINISTRA ROCCELLA

La “cultura” dell’intolleranza, tentativo organico di legittimare la sopraffazione

E’una vecchia ruggine, non posso farci niente: dagli anni di scuola mi trascino un’antipatia ostinata e, lo ammetto, non del tutto razionale per le tante formule – ora di origine giornalistica, ora di conio ecclesiastico, ora di natali oscuri – costruite intorno alla parola “cultura”: promuoviamo la cultura della solidarietà, lottiamo contro la cultura dell’indifferenza; per la cultura della vita, contro la cultura della morte: e così via. Il riferimento a una “cultura” mi sembra se va bene pleonastico, se va male pretenzioso; e comunque non mi piace come suona. Immaginate quindi con quale entusiasmo posso avere accolto, anni fa, l’ingresso trionfale nel dibattito della formula cancel culture. Non bastava chiamarla ostracismo, gogna, smania censoria? Perché “cultura”? A complicare le cose ci si sono messi i social network, pentole a pressione che accorciano drasticamente il tempo di bollitura delle parole: qualunque cosa volessero dire in origine, un paio di settimane di usi figurati, slittamenti, battibecchi, raffiche di recriminazioni incrociate e finiscono per non significare più nulla. Il risultato è che cancel culture – insieme a mille altre formule, da fake news a neoliberismo a patriarcato – fluttua oggi nelle nebbie della più esasperante aleatorietà semantica. E allora, perché non abbandonarla?

Una nota a margine di un caso a sua volta marginale può aiutarci a rispondere. La contestazione della ministra Eugenia Roccella al Salone del libro di Torino è un fatto in sé minimo, gonfiato fin quasi a scoppiare dal mantice di propagande reboanti, tra chi ha gridato al fascismo degli antifascisti e chi al fascismo dei fascisti: solita roba. A osservare le cose con senso della misura, quello di Torino non è stato che un minuscolo esempio di un attivismo illiberale prodotto nei laboratori della sinistra americana e importato qui in provincia con in più gli oneri doganali dell’illiberalismo autoctono (lo stesso accade con l’import di destra, beninteso). L’unico aspetto rivelatore di tutta la trascurabile faccenda, che fa sì che abbia senso riparlarne dopo una settimana, sono semmai le giustificazioni ex post di quelle forme di protesta venute da nomi del mondo intellettuale, giornalistico, letterario, accademico e in senso lato editoriale. Siccome ricostruire nel dettaglio discussioni captate su Twitter e attribuire con precisione la paternità o la maternità di ogni singola frase sarebbe una fatica ingrata per me e un inutile strazio per il lettore, mi limito a riassumere gli argomenti principali, garantendo che provengono non da utenti qualunque ma da personaggi che si possono considerare, a vario titolo, leader di opinione.

Ho trovato per esempio, sulla pagina di una scrittrice, una specie di sciarada sillogistica: l’aborto non è un’opinione, è un diritto; contrastare il diritto all’aborto è fascismo; il fascismo non è un’opinione, è un reato. Ne ho dedotto, credo abbastanza rigorosamente, che dovremmo ringraziare il servizio d’ordine eco-femminista che ha impedito la consumazione in flagranza di una presentazione criminosa e anticostituzionale. Su un’altra pagina ho dovuto leggere che la ministra e il suo governo incarnano idee intolleranti, e che con gli intolleranti è doveroso essere intolleranti, come vuole anche il liberale Popper (si tratta, va da sé, di un Popper del tutto allucinatorio, letto forse sotto l’effetto del popper). Altre argomentazioni tradivano invece il riflesso condizionato ideologico – anch’esso allenato a lungo nei campus americani – a usare il potere come chiave universale per decifrare il sottotesto implicito di tutti i discorsi: poiché tra la ministra e i manifestanti c’è un vistoso “differenziale di potere”, è legittimo che chi non ha voce la tolga per un’ora a chi ce l’ha sempre. Non esiste “dialogo” possibile tra potenti e subalterni, e i subalterni per definizione non possono “censurare” chi sta al di sopra di loro. Eccetera.

Il lettore avrà forse intuito dove voglio arrivare. L’ostracismo, la gogna, la smania censoria sono pulsioni universali che attraversano gli schieramenti e le ideologie. Ma argomentazioni come queste, e altre potrei citarne, compongono a tutti gli effetti una “cultura”: un tentativo organico di legittimazione politica, intellettuale e morale di alcune forme di intolleranza come metodo, non come eccesso episodico da guardare eventualmente con indulgenza. E questo – giustificare sofisticamente l’intolleranza in nome della tolleranza, la sopraffazione in nome della protezione dei più deboli – è, ai miei occhi, l’equivalente laico e democratico del peccato contro lo spirito: l’unico che non sarà perdonato. Quando poi stavo per deprimermi del tutto davanti allo spettacolo di qualche amico ex radicale conquistato alla causa dell’attivismo socialgiustiziere del no debate e del deplatforming e pronto a giustificare i boicottaggi urlanti – l’opposto di tutto ciò che ha rappresentato la tradizione dialogica e nonviolenta – mi è arrivata, inaspettata e balsamica, la notizia di una minuscola iniziativa dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta, che pur non condividendo uno iota delle posizioni di Roccella e condannando le tragediate della deputata Montaruli ha voluto invitare la ministra a presentare il suo libro insieme. Gesto cavalleresco del tutto simbolico – a Roccella, ovviamente, non mancano gli spazi e i megafoni – ma che per me simboleggia qualcosa di molto importante: qualcuno, quaggiù, non ha ancora cancellato Pannella.

(GUIDO VITIELLO, IL FOGLIO, 27 MAGGIO 2023)

Aggiungo qualche considerazione appoggiandomi sulle spalle del gigante Friedrich Nietzsche

“Si corrompe nel modo più sicuro un adolescente, se gli si insegna a stimare chi la pensa come lui più di chi la pensa diversamente.” (Aurora, 1881)

L’intollerante è un insicuro, in genere conformista, accusatore e pavido. Si trova a suo agio quando opera in gruppo mentre da solo non osa proferire verbo. Questo perché la folla, non nutre dubbi su ciò che per lei è verità o errore, è autoritaria ed intollerante. L’individuo può accettare la contraddizione e la discussione, ma la folla non le ammette mai. L’intollerante è ignorante e facilmente manipolabile (vedi appunto Salone di Torino), arrogante e tronfio. Sostanzialmente è un malato, un povero di spirito, incapace di confrontarsi con l’altro e quindi incline alla violenza verbale e/o di altra natura. L’intollerante è volgare perché vuole avere ragione, gli difetta qualsiasi capacità di ragionamento e di approfondimento delle questioni. Rigoroso come sempre Elias Canetti “Nell’intolleranza con cui si trattano gli esseri umani c’è una forza perversa: è come se si chiudesse loro la bocca con tutt’e due le mani perché non possano mordere. Eppure, non sempre essi vogliono mordere: come si può sapere quello che vogliono se si spranga loro la bocca con la violenza? Non è possibile che essi vogliano dire qualcosa che non potrà più essere detto un’altra volta? O forse emettere un gemito? O forse esalare un respiro? Per timore dei loro denti si perde tutto, la cosa più innocente, la cosa migliore.” (Il cuore segreto dell’orologio, 1987).

L’intollerante è convinto di incarnare il bene e nulla lo smuove da quella posizione. È vittima dell’ideologia, della congiunzione di idea e passione, di violenza ed isteria. Un moralista impotente che si esalta grazie al gruppo e si sente così infallibile al punto da commettere qualsiasi nefandezza contro il presunto oppositore che ovviamente verrà chiamato sempre e comunque “fascista” soltanto perché non la pensa come lui. Spesso è mosso da inconfessabili interessi personali che nasconde dietro l’intangibilità dei sacri principi. Più di tre secoli fa il buon John Locke ci aveva messo in guardia “Non la diversità di opinioni, che non si può evitare, ma il rifiuto della tolleranza a quelli che hanno opinioni diverse, che avrebbe potuto essere concessa, ha prodotto la maggior parte delle contese e delle guerre di religione che sono sorte nel mondo cristiano.” (Lettera sulla tolleranza, 1689). Eppure continuano le guerre sante ed oggi in nome della terrificante cancel culture o del presunto fascismo degli altri assistiamo a grotteschi rituali. Ma se tutto ciò con cui non siamo d’accordo viene chiamato “fascismo” perde significato il terribile e funesto fascismo storico. Se tutto è fascismo nulla è fascismo. Dobbiamo lasciar parlare anche chi presumiamo abbia torto, ascoltarlo senza superbia e chissà, magari potremmo imparare qualcosa oppure restare sulle nostre posizioni con dignità.

Ovviamente su molte questioni sollevate dai contestatori sono d’accordo. Il punctum dolens è proprio questo: l’intolleranza, non la questione in sé.

J.V.

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