VIALLI, CHE PER NOI È ANCORA FUTURO

VIALLI, CHE PER NOI È ANCORA FUTURO

Campione, sorridente, gentleman. L’italiano atipico del calcio

Se il falso nueve fosse un concetto ipostatizzabile, capace di vivere di pensiero proprio anche al di fuori delle fumisterie dei telecronisti; se il centravanti atipico fosse un’idea applicabile al tutto tondo di un calciatore, invece di servire da scusante quando i tecnici non sanno spiegare come mai un attaccante è tanto bravo da non poterlo ridurre a uno schema o a un numero di maglia, sarebbe più facile definire Gianluca Vialli come il calciatore più atipico che il calcio italiano abbia avuto. E anzi un uomo di sport, per essere italiano, atipico a tutto tondo. Gianluca Vialli, con i riccioli di quando era un giovane calciatore, con il cranio rasato e la barba da adulto londinese, con il sorriso aperto e gentile di sempre, è stato il campione dalla traiettoria meno prevedibile, come i suoi scarti di lato, che la dea Eupalla abbia regalato all’Italia. Così differente, così originale, così sempre padrone di sé senza prepotenze, così avanti sui tempi del calcio e sui tempi della vita e della vita pubblica, che l’Italia se l’è lasciato scappare.
La prova regina della affabile, mirabile, atipicità di Vialli sta, come spesso accade, nella fine, che è poi sempre un principio. Nel lunghissimo addio durato quattro anni, da quando nel 2018 disse pubblicamente di avere un cancro (e mai ha ceduto alla inutilità dell’eufemismo, nemmeno all’ultima bella intervista con Alessandro Cattelan), per lui c’è stato solo un grande e discreto affetto. Senza ombra di tifoserie, recriminazioni da curva, classifiche d’appartenenza. Sarà che per i più giovani (che vi siete persi se non l’avete visto giocare) Gianluca Vialli è quel fratello in lacrime, con la barba, che abbraccia a Wembley il suo fratello amato, Roby Mancio, in quella che a buon diritto resterà tra le fotografie più belle della passione calcistica e della Nazionale. Sarà che la dea Eupalla ha voluto sublimare in tutti i toni del blu i suoi trionfi e la sua carriera. Blu con i cerchi di quella che sarà per sempre la sua maglia, blu persino era quella bianconera nella notte di Roma in cui alzò la Coppa. Blu quella del Chelsea dove l’anno dopo andò, primo degli italiani a compiere una scelta non solo d’ingaggio, ma anche di vita. Vialli è nel cuore di tutti, uno di quei campioni impossibili da infettare con le piccinerie da campo, spogliatoio o rotocalco. E forse per questo è così atipico, cioè poco italiano.
Nella bella intervista del 2018 in cui svelò la sua malattia, Aldo Cazzullo partì benissimo ma con il dribbling sbagliato: “Lei è sempre stato un calciatore un po’ sui generis”. “E perché mai?”. “Famiglia benestante, uso del congiuntivo”. Benissimo, perché il cronista deve sempre mettersi all’altezza della curiosità del lettore; sbagliato, perché non sono la famiglia e i congiuntivi a fare di Vialli l’italiano differente che è stato. Gli rispose infatti: “Guardi che io sono cresciuto all’oratorio, come tutti. Non c’era la PlayStation, la tv aveva un solo canale”. A fare di Gianluca Vialli qualcosa di diverso, un oggetto d’affetto inafferrabile, per gli italiani che eravamo tra gli Ottanta e Novanta, era innanzitutto la sua diversità nel gioco (ancora oggi, quando non si sa come definire un fuoriclasse come lui, si dice “un giocatore moderno”). Agilità, potenza, acrobazia. L’altruismo e la fantasia. E poi quella sua lunga fedeltà, e non solo sua, alla sua Sampdoria, al suo gemello-fratello del gol, al genio balcanico e vulcanico di Boskov, ma soprattutto a quel gioiello irripetibile di società, di squadra, di organizzazione del talento che fu l’opus magnum di Paolo Mantovani. Lontano dai grandi club, un sogno da inseguire e finalmente raggiungere, con solo quel dolore che non gli passerà mai, di una Champions blucerchiata sfuggita in un attimo dalle dita. E poi quella scelta di Londra, primo dei nostri cervelli in fuga, “è un mix di disciplina e libertà: si pagano le tasse, si fa la coda, ci si ferma alle strisce pedonali”; quei vent’anni da expat. Quella famiglia a Cremona, non frequente, questo sì, nel pedigree dei calciatori cresciuti all’oratorio – imprenditori, provincia ricca e riservata, impermeabili alla modalità che gli ha trasmesso il dono della impermeabilità. E quei vent’anni vissuti a Londra con la moglie Cathryn, con le sue due figlie. “Mi sono dato subito degli obiettivi a lunga scadenza: non morire prima dei miei genitori e portare le mie figlie all’altare”, i suoi gol sfiorati. Atipico era, allora, diventare un cittadino del mondo, così lontano dalle beghe e dalla mondanità italiana, dal piccolo palcoscenico. Così bravo da essere perfetto nel calcio inglese, che già a metà dei Novanta era così più avanti del nostro che iniziava a rimpicciolirsi. Così bravo da diventare manager del Chelsea e mostrare di saper essere un coach inglese. E questo modo di affrontare la malattia, la morte, il pudore e il dovere-dolore di dirlo, così poco italiano in questa sua compostezza da gentleman in cui aveva a poco a poco trasformato la sua ritrosia borghese e padana. Più che un altro pezzo del passato del nostro calcio che se n’è andato, Gianluca Vialli è un futuro che non abbiamo ancora imparato a capire.
(Maurizio Crippa)

Crippa scrive bene della atipicità di Vialli. L’uomo Vialli è veramente un precursore per tipo di gioco, per carattere e stile di vita. Provenienza borghese e agiatezza non sono sufficienti per spiegare le sue scelte. La scelta inglese è frutto di lungimiranza. Ha ragione Crippa. Ma ciò che a me interessa di più dell’uomo Vialli è la sua fedeltà a Paolo Mantovani e alla Samp d’oro. Luca e tutti gli altri erano consapevoli che il sogno prima o poi sarebbe finito. Il Presidente lo aveva detto con chiarezza: il calcio cambierà e non potremo più competere con le grandi. Ecco il perché del patto tra Luca, Roby, Pietro e gli altri. Forse la vittoria a Wembley in quella maledetta serata avrebbe potuto mutare la nostra storia ma non è cosa certa. La Samp d’oro fu il frutto magico di una sapiente alchimia e la grandezza di un allora bellissimo Genoa magistralmente diretto da Schopenhauer Bagnoli arricchì la nostra forza e il prestigio della città.

Scrivo in preda al dolore per la morte di Luca e Siniša e alla disperazione di un ben triste presente. Poco mi importa di quanti non comprendono l’importanza del calcio. Il calcio non è importante… è di più. I cugini rivali, gli interisti, i milanisti, gli juventini, i napoletani… tutti i tifosi lo comprendono. Sarebbe sufficiente leggere Camus, Saba, Soriano, Hornby, Brera e mille altri grandi scrittori per capirlo. Chi, come me, ha giocato in piazza, si è scorticato la pelle sui campi in terra battuta, si è rotto le ossa infinite volte nella consapevolezza di non essere forte ma di provare un immenso piacere a dare l’anima su un campetto di calcio è fortunato.

Chi non capisce è sfortunato e lo sarà per sempre. La magia del derby, il pacchetto di sigarette bruciato in due ore, la pioggia battente, la disperazione e la speranza… un privilegio simile all’ amore. L’amore per la tua squadra è per sempre e non vacillerà mai. Un amore fedele ed eterno. Ecco ciò che molti avventurieri di oggi stanno sottovalutando. L’immenso amore per la tua squadra può tramutarsi in odio feroce per chi la umilia, la sfrutta, la impoverisce, la sbatte in mezzo alla strada. Occorrono molto coraggio e molta forza per chi come me oggi ha nostalgia di una ragazza povera e semplice che si trasforma in principessa, non diviene regina per un soffio e poi viene sfruttata da un prosseneta che cerca di gettarla in mezzo alla strada. Non lo meritiamo noi, non lo merita Vialli, non lo merita la città, non lo meritano i nostri cugini. Ieri un genoano ha scritto su Vialli: “spesso ci hai inflitto dolore ma la tua morte è il più grande”. Questo meraviglioso tifoso genoano non merita ciò che sta accadendo alla Sampdoria. La Samp d’oro, il suo ricordo, non meritano tutto questo. A Luca è stato tolto il privilegio di poter divenire Presidente. Dolore si aggiunge a dolore. Azeglio Vicini, un sampdoriano, perse un mondiale per scelte scellerate. Sarebbe bastato far giocare il blocco Sampdoria o almeno l’uomo verde in marcatura su Maradona. A Wembley nella notte maledetta il sogno si spezzò al minuto 117. Poi continuammo a frequentare l’alta società sino all’omicidio su commissione eseguito da Trentalange. Poi tornammo a riveder le stelle con Duccio e sfiorammo di nuovo l’ingresso nel calcio che conta. Ciò che sta avvenendo oggi non è sopportabile. La morte di Siniša e Gianluca ha riunito il popolo sampdoriano. La nostra richiesta è una sola: dignità. Soltanto questo vogliamo. Lo dobbiamo ai nostri Morti, alla nostra Storia. A quanti pensano che la mia sia una posizione ingenua rispondo che sbagliano. Sbagliano perché è invece ingenuo pensare che si possa usare e gettare via un patrimonio umano e sportivo, sporcare e depredare, offendere e restare impuniti. Nessuno sottovaluti il calcio e l’immensa volontà di amare che esso contiene.

L’ultimo progetto di Gianluca Vialli, il documentario “La bella stagione”, andrà in onda questa sera Rai 2 alle 21,20. Noi innamorati lo guarderemo ma lo consiglio a tutti, anche agli scettici, ai miscredenti, ai timidi e agli arroganti. È un film d’amore.
Forza Sampdoria, sempre.

J.V.

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