DOLORE E FURORE, DI SERGIO LUZZATTO

DOLORE E FURORE, DI SERGIO LUZZATTO

Genova negli anni di piombo. Una storia dolorosa scritta col piombo e col sangue da una generazione furente. Biografia di Riccardo Dura, l’assassino del sindacalista Guido Rossa. A Genova tutto inizia e tutto finisce. Bildungroman e romanzo criminale. Compagni che sbagliano, album di famiglia, delirio collettivo in una Genova violenta ed impazzita. Genova della XXII Ottobre, del giudice Sossi primo sequestrato delle BR, del giudice Coco e della sua scorta uccisi barbaramente. Perché proprio a Genova i terroristi vogliono chiamare gli operai alla lotta armata? Negli anni Settanta Genova è la città dello Stato imprenditore con Italsider, Ansaldo, Italcantieri. La risposta viene data con le armi dal generale Dalla Chiesa al quale lo Stato assegna il comando di un’operazione militare.

Il contesto genovese si intreccia con quello nazionale ed internazionale, col traffico di armi, il sequestro Moro, i legami con la delinquenza comune. “Allo sguardo di chi si sentiva – in un modo o nell’altro – un militante per il comunismo, quei sei mesi dell’autunno caldo del 1969 avevano dischiuso la prospettiva concreta, o addirittura imminente, di una rivoluzione vittoriosa”. Non andrà così ma quegli anni cambiarono in peggio il nostro paese. Ragazzi convinti di essere partigiani si comportarono da spietati assassini figli di un’ubriacatura collettiva. Poi si può discutere sulle responsabilità di alcuni docenti universitari di via Balbi e sulle truppe di fiancheggiatori dei terroristi ma ciò che interessa è che Luzzato dimostra coraggio e intelligenza nella descrizione dettagliata del porto, delle fabbriche, della nave-scuola Garaventa, dello scontro di culture, della distanza antropologica tra le vecchie maestranze fedeli al PCI e i nuovi immigrati che mal tolleravano l’etica del lavoro o il controllo politico e professionale. Descrive molto bene lo scontro tra chiesa reazionaria e anticonciliare del Cardinale Siri e i preti da strada come Andrea Gallo.

Figure note come Edoardo Arnaldi, Sergio Adamoli, Giovanni Senzani, Enrico Fenzi, Gianfranco Faina. E poi figure di operai metalmeccanici, Vincenzo Guerrazzi, Pippo Carrubba, Giuliano Naria. Molti di coloro che scelsero la lotta armata pensavano che il partito e il sindacato si erano ormai burocratizzati e avevano tradito la causa della lotta di classe della rivoluzione comunista, che la resistenza era stata tradita dalla nomenclatura repubblicana e infine che soltanto una rinnovata mobilitazione partigiana avrebbe potuto difendere l’Italia dal golpe di cui già nel 1969 Giangiacomo Feltrinelli, l’editore guerrigliero, aveva avvertito il pericolo mortale. E nella seconda metà degli anni 70 la classe operaia viene chiamata ad una scelta di campo irrevocabile tra la lotta armata e lo Stato democratico. A coloro che sostenevano durante i 55 giorni del sequestro Moro “né con lo Stato, né con le BR”, la storia dimostrerà che la via italiana alla rivoluzione comunista era seminate di insidie, scorciatoie e trappole, attaccata dal fuoco amico oltreché dal fuoco nemico, piena di morti e senza neppure un’ombra del sol dell’avvenire. La storia delle Brigate Rosse sarà un nibelungico finale di partita, una storia di zone d’ombra a iniziare da quanto ancora ignoriamo sul caso Moro, sul ruolo della centrale sovversiva parigina chiamata Hyperion, sulla natura dei rapporti dei brigatisti rossi con i servizi segreti dell’est e con i terroristi del Medioriente, per non parlare delle alleanze con la malavita organizzata in particolar modo da parte della colonna napoletana guidata da Giovanni Senzani. Il terrorismo rosso italiano è stato il prodotto di una diffusa cultura vagamente antistituzionale, terzomondialista, operaista, nichilista, oltranzista, nemica delle riforme del centro sinistra e sprezzante nei confronti delle garanzie giuridiche dello Stato di diritto con l’aggravante di una venerazione verso l’idolo della violenza rivoluzionaria come levatrice di progresso. Anni di dolore e furore, album di famiglia, come dirà Rossana Rossanda. Luzzatto sceglie come protagonista di questa tremenda storia Riccardo Dura, un ragazzo siciliano trapiantato a Genova, figlio di una madre possessiva, internato nel manicomio di Genova e poi collocato sulla nave di correzione per minorenni Garaventa. Per Luzzatto la storia delle BR è stata fatta da persone qualsiasi, operai, tecnici studenti giovani delle periferie ma a Genova le cose sono andate un po’ diversamente. Il reclutamento è avvenuto anche attorno a chirurghi come Sergio Adamoli, storici come Gianfranco Faina, filologi come Enrico Fenzi e con loro le parole divengono pietre.

Ricordo tutto e ricordo bene. Ricordo lo sgomento di un uomo intelligente e generoso come il mio amico e maestro Claudio Costantini di fronte al disvelamento della verità. Dopo il Blitz di Genova del maggio 1979, i 16 arresti e un presunto legame con l’indagine padovana del giudice Calogero, Claudio Costantini chiese ospitalità sulle pagine del Secolo XIX per domandare attraverso una lettera aperta se quella scatenata del generale Dalla Chiesa a Genova fosse repressione del terrorismo o repressione del dissenso. Costantini aveva accompagnato da posizioni libertarie radicali mai complici però della violenza organizzata un decennio di vita politica in via Balbi. Venne colpito dal disastro del doppio gioco di suoi colleghi amici, dalla loro schizofrenia. Nessuno meglio di lui poteva avvertire l’opinione pubblica sul fatto che il dissenso è una cosa e il terrorismo un altro ma in quel clima di guerra privata che ormai dominava l’Italia del ‘79 la lucida e razionale analisi di quell’uomo intelligente e profondo sarebbe rimasta inascoltata. L’inizio della fine per le BR è segnato dall’assassinio di Guido Rossa, comunista e sindacalista. Chi spara ad un operaio e sindacalista dell’Italsider non può essere un vero compagno degli operai, nè un vero rivoluzionario. La città era in lutto, 250.000 persone sotto la pioggia in Piazza De Ferrari. Basta con le ambiguità: occorre stare con lo Stato, quello nato dalla Resistenza. Esemplare a questo proposito il comunicato dell’Italcantieri “l’uccisione del compagno delegato Guido Rossa è stato un attacco non ad un militante di un partito ma alla classe operaia, perché Guido Rossa non era un padrone, non era un dirigente industriale, era un delegato operaio eletto liberamente dagli operai e non dal padrone… A noi del collettivo operaio del cantiere non interessa sapere chi era e cosa abbia fatto, a noi interessa che quella mattina era andato per lavorare, rischiare, come tutti noi operai la vita dentro la fabbrica, per poi fare questa orrenda fine. No compagni, c’è troppo sdegno, troppa rabbia in noi…… Se prima c’era un punto interrogativo, un dubbio, con quest’azione così orrenda esso si è cancellato dalla nostra mente, perché attaccando il sindacato e con esso il delegato e viceversa, si attacca la classe operaia “.

Ormai è chiaro che da una parte stanno gli operai, dall’altra stanno i nemici degli operai. Quello di Guido Rossa fu un omicidio-suicidio e causò rabbia per ciò che le BR avevano fatto e per ciò che non avevano fatto. Il furore è stato represso ma il dolore è rimasto nel cuore dei familiari delle vittime e nei cuori di tutti noi.

J.V.

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