BENEDETTO XVI(1927 – 2022)

BENEDETTO XVI(1927 – 2022)

UN PROFESSORE DIVENTATO PAPA

“Io sono certo di ciò che rimarrà alla fine: la Chiesa della fede. Una Chiesa che non sarà più la forza sociale dominante, ma una Chiesa che conoscerà una nuova fioritura”

Chi è stato Joseph Ratzinger-Benedetto XVI? Di lui si conoscono il curriculum, le innumerevoli pubblicazioni, i discorsi. Ma oltre a ciò, cosa si staglia dietro al minuto profilo di questo intellettuale bavarese? Una figura enorme, che resistette ai tanti attacchi anche personali subiti, ma che si irritava se un volume di Kafka era stato riposto al contrario nella sua fornitissima biblioteca domestica. “I suoi amici sono i libri. E se non c’è un libro a fargli compagnia, allora al suo posto c’è una grande figura della storia della Chiesa”, ha detto il segretario personale Georg Gänswein.

Si potrebbe partire dalla fine, dagli anni del ritiro nella quiete dei Giardini vaticani o dai drammatici mesi in cui l’anziano Papa dialogava con Dio sul passo fatale che stava maturando nel cuore, la rinuncia. Oppure, scandagliando le vicende del pontificato, dalle folle che a Colonia, Sydney e Madrid andavano ad ascoltarlo, agli scandali e ai momenti bui che travagliarono gli otto anni in cui governò la Chiesa dopo Karol Wojtyla. Ma è correndo ancora più a ritroso nel tempo, risalendo il corso dei decenni, che si possono capire parole scritte e pronunciate, gesti e decisioni di Benedetto XVI. Tornando agli anni Cinquanta e Sessanta, quelli dell’attesa per il grande Concilio, della sua celebrazione e delle sue conseguenze. Gli anni dell’insegnamento universitario e delle dispute teologiche in un contesto sociale e culturale che stava rapidamente mutando.

Il principio di tutto è quel Sabato santo del 1927, quando fu battezzato Joseph Aloisius, il figlio più piccolo del gendarme Joseph Ratzinger, nato solo il giorno prima. Un episodio profetico: il futuro Papa, da bambino, vide per la prima volta il cardinale Michael von Faulhaber, arcivescovo di Monaco e Frisinga, e disse “diventerò un cardinale”. E poi le vicende dell’infanzia, gli anni del seminario, le letture. Una delle sue preferite era Il lupo della steppa di Hesse, di cui lo colpì “l’analisi spietata della disgregazione dell’Io, che rispecchia quanto sta accadendo oggi all’uomo”. Studiava Newman e Guardini, leggeva di tutto: da Sartre a Camus, da Huxley a Orwell e Bernanos. Ma nulla lo colpì più delle Confessioni di sant’Agostino, santo che “sento come un amico, un contemporaneo che parla a me”. Se fosse rimasto solo su un’isola deserta con due soli libri a disposizione, avrebbe scelto la Bibbia e le Confessioni, dirà anni dopo. “Proprio a causa della sua passione per l’uomo ha necessariamente cercato Dio, perché solo nella luce di Dio anche la grandezza dell’uomo, la bellezza dell’avventura di essere uomo può apparire pienamente”. Annota Peter Seewald nella monumentale biografia di Ratzinger che “è la lotta combattuta nella ricerca di Dio a commuoverlo, la pienezza di conoscenze che non si acquisiscono semplicemente sui libri ma solo grazie a un profondo moto dell’anima. L’identificazione con il maestro arriva al punto che, secondo lo studioso del vescovo di Ippona Cornelius Mayer, si potrebbe parlare di Ratzinger come di un secondo Agostino, un Augustinus redivivus”. Arrivò Bonn, la cattedra universitaria a trentadue anni. Lì, “una voce come quella di Ratzinger non s’era mai udita”. Solo poche settimane dopo il suo arrivo, si dovette cercare un’aula più spaziosa per consentire a tutti gli studenti di assistere alle lezioni. E non bastò ancora: la folla era così numerosa che l’amministrazione universitaria fu costretta ad attivare un altoparlante per consentire a quanti affollavano l’Aula magna di poter ascoltare le spiegazioni del giovane professore. Ratzinger era nel suo elemento, quell’esperienza fu per lui come “una festa del primo amore”. Poi ci fu il Concilio. Il cardinale arcivescovo di Colonia, Josef Frings, era rimasto estasiato da quel brillante teologo di Monaco quando nel febbraio del 1961 assistette a una sua conferenza all’accademia Thomas More di Bensberg. “Un modello costitutivo di origine profana viene applicato alla Chiesa e si perde di vista ciò che rende unica la Chiesa, vale a dire la sua origine divina. Il Concilio non è un parlamento e i vescovi non sono deputati che traggono la loro autorità e il loro mandato esclusivamente dal popolo che li ha eletti. Non rappresentano il popolo, ma Cristo, da cui ricevono la loro missione e consacrazione”. Frings subito lo prese con sé come ghostwriter, gli chiese di scrivere un discorso che di lì a poco avrebbe dovuto pronunciare a Genova sulla teologia del Concilio. Ratzinger accettò, compose un testo che lasciò senza parole la platea. Giovanni XXIII convocò Frings per ringraziarlo: “Lei ha detto tutto ciò che ho sempre pensato e voluto dire, ma che da solo non sono mai riuscito a esprimere”. In quel documento, il trentaquattrenne professore chiariva che il compito della grande assemblea che si sarebbe aperta di lì a poco era di formulare la fede cristiana come un’alternativa reale, praticabile e degna di essere vissuta, nel dialogo con una modernità profana. Frings volle Ratzinger a Roma, doveva seguirlo per l’apertura del Concilio. Il teologo era entusiasta di quell’evento, convinto che il cristianesimo dovesse essere “molto più a contatto con la realtà, più dinamico e più originale”. Arrivato a Roma, dovette sistemarsi in un ostello in via Zanardelli, ché al Collegio tedesco per lui non c’era posto: dopotutto era un giovane consigliere e nulla più (perito lo sarebbe diventato dopo), che si portò in valigia un dizionario di italiano. Non vedeva l’ora di incontrare i teologi che più ammirava, da de Lubac a Daniélou, da Congar a Philips. Incontrò anche Karl Rahner. Si rallegrò di quello che il cardinale Suenens definì “felice colpo di stato e audace violazione del regolamento”. In sostanza, il 13 ottobre 1962, giorno della prima congregazione generale, tra gli applausi dei tremila padri presenti, i cardinali Liénart e Frings guidarono la protesta contro l’elezione pro forma dei commissari del Concilio, mandando un chiaro segnale alla vecchia guardia curiale. “Le sorti del Concilio sono state decise in buona parte in questo momento”, annotò Suenens nei suoi diari. Ratzinger esultava: “Il Concilio era determinato ad agire in modo indipendente e a non abbassarsi a essere mero organo esecutivo delle commissioni preparatorie”. Anni dopo, ripensando a quanto accadde, l’entusiasmo di allora fu soppiantato dal rammarico: “Ciò che per Frings era solo la conseguenza implicita della convocazione del Concilio e un’espressione concreta di cattolicità interessò l’opinione pubblica sotto tutt’altro aspetto: il pubblico vide nell’evento una ribellione, un atto di insubordinazione alla curia e l’episodio accese così i sentimenti antiromani e il desiderio primordiale di sfidare l’autorità”. Il Reno, come scrisse il giornalista Ralph Wiltgen, “iniziò a scorrere nel Tevere”. Notò Ratzinger che ribellandosi “alla continuazione unilaterale di una spiritualità antimodernistica”, i padri “avevano deciso di intraprendere un nuovo cammino e di portare avanti un pensiero e un linguaggio positivi”. Insomma, quello che due decenni più tardi sarebbe stato definito sprezzantemente come “l’Inquisitore” o il “Panzerkardinal”, era un teologo fortemente impegnato nel portare acqua al mulino del fronte novatore. “Certo che ero progressista. A quei tempi progressismo non significava rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e a viverla in modo più giusto, ripartendo dalle sue origini”, disse. Già nel 1960 aveva le idee chiare su quale dovesse essere la strada conciliare: “Ciò che conta è ridare vita alle asserzioni di fede, rimuovendone la rigidità sistematica, ma senza intaccare ciò che in esse è veramente valido, riportandole alla loro vivacità originaria”. Era consapevole che molto andava cambiato, senza però imporre storture ma rimanendo fedeli al cuore pulsante della fede. Ratzinger – scrive il suo biografo – era disgustato da un cristianesimo piccolo-borghese e fin troppo conformista che si cullava nella sua comoda sicurezza. Si era formato in seno alla teologia riformista e allo stesso tempo si confrontava costruttivamente con la vita, il pensiero e la conoscenza del presente”. Era dunque convinto “che la sola intenzione di adeguarsi al mondo, senza trovare un giusto equilibrio con la tradizione, avrebbe condotto la Chiesa a non conquistare nuovi fedeli, ma a perdere se stessa”.

Ma già pochi anni dopo la chiusura del grande evento, Ratzinger avvertì gli scricchiolii: “C’era una grande differenza tra ciò che i padri volevano e ciò che veniva trasmesso all’opinione pubblica e influenzava il sentire comune. I padri volevano aggiornare la fede e con questo aggiornamento intendevano restituire alla fede tutta la sua forza”. Invece, si era diffusa l’impressione che “la Riforma consistesse semplicemente nel liberarsi da inutili zavorre, in un alleggerimento: il risultato fu che la riforma non apparve come una radicalizzazione della fede, ma come una sorta di suo assottigliamento”. “L’apertura al mondo – disse – non significa per il cristiano una condizione più confortevole, nella quale ci si può tranquillamente abbandonare al conformismo mondano di una cultura di massa alla moda”.

Venivano in superficie tutte le derive che sbrigativamente, nei decenni successivi, sarebbero andate a ingrossare il tema della cosiddetta “interpretazione del Concilio”. Se alla vigilia della terza sessione del Concilio Ratzinger diceva che “non c’era alcuna ragione di scetticismo”, prima della quarta sessione il suo tono cambiò.

Il 18 giugno 1965, in una conferenza all’Università di Münster intitolata “Vero e falso rinnovamento nella Chiesa”, il futuro Pontefice elencò i pericoli che la Chiesa rischiava di dover affrontare. Bisognava stare attenti da un lato all’irrigidimento della propria tradizione, dall’altro alla sua disgregazione per adattarsi al mondo. Un anno dopo, la sentenza: “Diciamolo apertamente: c’è un certo disagio, un clima di disincanto e delusione […]. Secondo alcuni il Concilio ha fatto troppo poco […], secondo altri è stato uno scandalo, la resa della Chiesa all’assenza della spiritualità di un tempo in cui Dio si è eclissato, a causa della brutale ossessione per le cose terrene. Sono sgomenti e feriti nel vedere che ciò che è più sacro per loro vacilla e voltano le spalle a un rinnovamento che ritengono una svendita del cristianesimo e quindi una sua dissoluzione; e questo accade in un momento in cui occorrerebbe invece avere più fede, speranza e amore”.

Discorsi, scritti, commenti che fanno ben comprendere la consapevolezza che si fece largo in Joseph Ratzinger, la maturazione di pensiero del giovane entusiasta per il Concilio e il professore perplesso per le tante derive e interpretazioni dello stesso. Tutti elementi che aiutano a capire che non ci fu alcuna svolta legata e limitata agli avvenimenti del Sessantotto, con la protesta a Tubinga che vide coinvolta la facoltà cattolica dove nel frattempo si era trasferito. Si è molto favoleggiato su un presunto “trauma” subito da Ratzinger, sconvolto da quanto accadde nell’ateneo, tra le occupazioni, le proteste e le minacce ai docenti – “l’esistenzialismo andava in pezzi e la rivoluzione marxista si accendeva in tutta l’università, la scuoteva fin dalle fondamenta” –, scriverà più tardi. Non pochi dissero che Ratzinger era a tal punto turbato da andarsene nella più tranquilla Ratisbona. Non fu per quella ragione, anche se gli eventi del Sessantotto segnarono una cesura nella storia e nella consapevolezza della stessa. Ne è dimostrazione il testo uscito qualche anno fa e superficialmente passato nella narrazione mediatica con titoli quali, ad esempio, “Preti pedofili a causa del Sessantotto”. Quando in realtà la testimonianza di Ratzinger voleva evidenziare come il problema reale e drammatico dell’oggi sia l’assenza di Dio, la sua negazione. E sì, gli anni Sessanta c’entravano, ma solo come dato fattuale: “Il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, da lungo tempo preparato e che è in corso, negli anni Sessanta, come ho cercato di mostrare, ha conosciuto una radicalità come mai c’era stata prima di allora. Questa dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale doveva necessariamente ripercuotersi anche nei diversi spazi di vita della Chiesa”. Non ci fu insomma nessuna svolta tra il Ratzinger progressista pre 1968 e il Ratzinger conservatore post 1968. Chi lo pensa, non tiene conto del significato che dava al termine “progressismo” lo stesso Ratzinger. Nella posizione di Ratzinger, Henri de Lubac vedeva la salvezza “dalla melma di un progressismo che ci conduce alla disintegrazione spirituale e, al tempo stesso, il modo corretto di soddisfare il desiderio che molti hanno di un rinnovamento autentico”. “Il problema vero era il compito che quella nuova epoca ci metteva di fronte, era l’irruzione del marxismo e delle sue promesse”, scriverà il futuro Papa in La mia vita. Il pericolo grande, aggiungeva, era che “la distruzione della teologia, che avveniva attraverso la sua politicizzazione in direzione del messianesimo marxista” potesse risultare affascinante perché “basata sulla speranza biblica”.

La conseguenza possibile di ciò era che si conservasse “il fervore religioso, eliminando però Dio, e sostituendolo con l’azione politica dell’uomo”. Sono gli anni dei cinque celebri e un po’ profetici – anche se Ratzinger ricordò che “il teologo non è un indovino né un futurologo che fa calcoli sul futuro basati su fattori misurabili del presente – discorsi radiofonici, l’ultimo dei quali trasmesso il giorno di Natale sulle frequenze della Hessian Rundfunk: “Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare molti degli edifici che essa aveva costruito in tempi di prosperità. Man mano che il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche molti dei suoi privilegi sociali. Rispetto all’epoca precedente, sarà considerata molto di più come una società volontaristica, cui s’accederà solo in base a una decisione libera”.

Ratzinger non ha mai avuto alcun dubbio sulla decisione di convocare il Vaticano II: “E’ stato sicuramente giusto farlo”, dice a Seewald, aggiungendo che“ci fu un momento nella storia della Chiesa in cui ci si aspettava semplicemente qualcosa di nuovo, un rinnovamento che partisse dalla Chiesa stessa e la coinvolgesse in ogni sua parte; non fu qualcosa che venne unilateralmente stabilito a Roma. La convocazione del Concilio venne a soddisfare esattamente quell’aspettativa generale”. Le critiche di Ratzinger al post Concilio non erano isolate, Von Balthasar denunciò il fatto che “spiriti meschini” stessero sfruttando i documenti approvati durante la grande assemblea voluta da Giovanni XXIII e conclusa da Paolo VI per mettersi in mostra. Nelle università succedeva di tutto, un teologo della facoltà dove insegnava Ratzinger si mise a “insegnare che le sue opinioni erano l’autentico cattolicesimo”. De Lubac smise di collaborare con Hans Küng, che nel frattempo veniva biasimato da Von Balthasar: “Küng è un birbante, lo conosco molto bene. A Tubinga è così insopportabile che il suo collega J. Ratzinger, che vale cento volte più di lui, per sfuggire alla sua presenza si è ritirato nella piccola facoltà di Ratisbona”, scrisse in una lettera indirizzata a De Lubac.

Intanto, il professor Ratzinger vedeva attuarsi “la distruzione di quell’inizio tanto promettente che era stato il Concilio”. A Tubinga, nella facoltà cattolica, comparvero opuscoli che stigmatizzavano la croce come simbolo di glorificazione sadomasochistica del dolore. I teologi principianti inneggiavano a un “Gesù maledetto”. Ricorda Thomas Moll: “Improvvisamente si diffuse l’abitudine di celebrare la messa negli appartamenti privati, mentre ognuno aveva in mano un bicchiere di vino rosso”. Scriverà Ratzinger: “Ho visto senza veli il volto crudele di questa devozione ateistica, il terrore psicologico, la sfrenatezza con cui si arriva a rinunciare a ogni riflessione morale, considerata come residuo borghese, laddove era in questione il fine ideologico”. Nonostante ciò, da parte sua non vi fu alcuna abiura della stagione conciliare: non si può indulgere “alla nostalgia di un passato che non può tornare”, disse mentre si apprestava a mettere nero su bianco la sua Introduzione al cristianesimo, libro pubblicato nel 1968 e diventato un bestseller. Nota Seewald che “basta leggere” quest’opera “per vedere che prima del 1968 e dopo il 1968, prima del Concilio e dopo il Concilio, prima del suo periodo romano e durante il suo periodo romano, la teologia e il pensiero di Ratzinger restarono gli stessi, fatta eccezione per alcune sfumature e qualche approfondimento”.

Passarono gli anni nella tranquilla Ratisbona, fino a quando, nel 1977, giunse inaspettata da parte di Paolo VI la nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga. La notte fu terribile, i dubbi lo assillavano: accettare o no? Gli venne in mente il Salmo 72: “Ero stolto e non capivo, davanti a te stavo come una bestia. Ma io sono con te sempre, tu mi hai preso la mano destra”. L’indomani mattina, disse dì sì. Come avrebbe detto sì a Giovanni Paolo II, che già pochi mesi dopo l’elezione lo voleva con sé a Roma. Ratzinger si fece attendere a lungo: quando Wojtyla gli propose l’incarico di prefetto della congregazione per l’Educazione cattolica, l’allora arcivescovo di Monaco rifiutò spiegando che la conoscenza delle università tedesche era diversa da quella degli istituti situati nelle altre parti del mondo. Due anni più tardi, nel 1981, Giovanni Paolo II lo convocò a Roma dicendogli che l’avrebbe voluto prefetto dell’ex Sant’Uffizio. Anche stavolta, Ratzinger disse no. O meglio, si mostrò disponibile a patto di poter continuare a pubblicare: “Avevo posto una condizione che sapevo non era possibile soddisfare”. Il Papa rimase spiazzato, disse che ci avrebbe pensato. Due mesi dopo, nuova convocazione: Wojtyla, raggiante, gli disse che avrebbe potuto continuare a scrivere e pubblicare. “A quel punto non potevo più rifiutarmi”.

Seguì l’impegnativo trasloco, l’attesa per l’arrivo a Roma della sorella Maria, le cene solitarie alla trattoria “Cantina tirolese”. E il rapporto con il Pontefice polacco che si rafforzava. Non potevano essere più diversi, ricorda il biografo: “Grande e grosso l’uno, piccolo ed esile l’altro. Estroverso l’uno, introverso l’altro. All’emotività di Wojtyla si contrapponeva la razionalità di Ratzinger. Il polacco era uno sportivo, cosa che il bavarese decisamente non era. Uno era devoto in particolare di Maria, l’altro di Gesù. Nessuno avrebbe potuto scambiarli per fratelli. Wojtyla era un personaggio appassionato, pieno di fascino e talento recitativo, che sapeva infondere euforia in coloro che cercavano Dio. Ratzinger era un uomo delicato e sensibile, un pensatore disciplinato e geniale, solido e fidato, ma senza ambizioni, tranne quella di poter forse scrivere un giorno una grande cristologia”. Eppure, la Storia avrebbe detto che quei due erano fatti per lavorare assieme, fino alla fine. Ratzinger si districò tra le tensioni a destra con i lefebvriani e a sinistra con i teologi della liberazione, sempre con il sostegno del Papa. Il problema vero non erano i gruppi che rivendicavano chi un ritorno impossibile al passato e chi una fuga in avanti. Tutt’altro: “La mia impressione è che tacitamente si vada perdendo il senso autenticamente cattolico della realtà ‘Chiesa’ senza che lo si respinga espressamente. Molti non credono più che si tratti di una realtà voluta dal Signore stesso. Anche presso alcuni teologi la Chiesa appare come una costruzione umana, uno strumento creato da noi e che quindi noi stessi possiamo riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento”. Di nuovo tornano tutti i paletti fissati prima e dopo il Concilio, quando Ratzinger si definiva progressista smarcandosi però da quanti sbandieravano un progressismo devastatore, quello appunto delle messe private con il bicchiere di vino in mano. E tale resterà l’orientamento nei decenni successivi; la diagnosi sempre la medesima: “La cristianità ha subìto una tremenda perdita di importanza”, c’è il “pericolo di dittature anticristiane”, la Chiesa è “soffocata dal suo potere istituzionale”, “si deve dire addio all’idea di una Chiesa popolare”. “La Chiesa ha bisogno di una rivoluzione della fede. Non deve allinearsi allo spirito del tempo. Per preservare il suo bene, deve separarsi dai suoi beni materiali”. Concetti chiari anche all’inizio del Terzo millennio, quando la Dichiarazione Dominus Iesus della congregazione per la Dottrina della fede sull’unicità e universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo e della Chiesa diede fuoco alle polveri. Dalla Germania soprattutto, con Hans Kung che definiva Giovanni Paolo II “figura incartapecorita” che imponeva giuramenti di fedeltà simili “alle lettere con cui si giurava la propria fedeltà a Hitler”. Il documento, che sarà poi difeso da Wojtyla all’Angelus, chiariva che per i cattolici “deve essere fermamente creduta l’affermazione che la pienezza di Dio vive davvero in Gesù Cristo”. Naturalmente, nel mirino finì l’allora prefetto che però chiarì di non aver mai scritto quel testo: “Ho collaborato, apportando alcune revisioni critiche e cose del genere. Ma non ho scritto nessuno dei documenti, nemmeno la Dominus Iesus”. Più di un colpo fu assestato contro Ratzinger. A proposito del concistoro per la creazione di nuovi cardinali, nel 2001, la Zeit scrisse che “questo non è stato solo il primi concistoro, la prima creazione di nuovi cardinali nel Terzo millennio appena iniziato; è stata anche la fine di un’epoca. E quest’epoca porta il nome di Ratzinger”. La storia sarebbe andata in tutt’altra direzione. Martedì 19 aprile del 2005 fu eletto Papa con il nome di Benedetto XVI. “C’è stato un momento in cui ha veramente preso in considerazione la possibilità di rifiutare?”, domanda Seewald. “Oh sì, sì. Veramente l’ho fatto in continuazione. Ma in qualche modo sapevo che semplicemente non mi era permesso dire no”. Neppure quella volta, soprattutto quella volta. Il resto è cronaca. Gli anni del pontificato, quelli più conosciuti. I grandi discorsi, le folle, la trilogia su Gesù di Nazaret, le encicliche profondissime. Il tempo, anche, dei fendenti scagliati da un mondo pronto a colpire lui per colpire la Chiesa di Cristo. Fino a quel 28 febbraio di quasi otto anni fa, il viaggio in elicottero verso Castel Gandolfo: “Ero molto commosso. La cordialità del commiato, anche le lacrime dei collaboratori. Sulla casa ‘Bonus Pastor’ campeggiava l’enor- me scritta ‘Dio gliene renda merito’… e poi le campane. In ogni caso, mentre mi libravo lassù e sentivo il suono delle campane di Roma sapevo che potevo ringraziare e che lo stato d’animo di fondo era la gratitudine”. L’epilogo, l’ultimo discorso dalla villa pontificia, con il sipario pronto a calare su 2.864 giorni di pontificato. Parole che, rilette ora, rendono meno misteriosi tutti i gesti, gli interventi e gli scritti del Papa emerito: “Non sono più Sommo Pontefice della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità”. Il pensiero torna allora a quei discorsi radiofonici di fine anni Sessanta, dove il buio lasciava comunque intravedere, pian piano, la luce: “La Chiesa troverà di nuovo con piena convinzione ciò che è la sua essenza, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nella presenza dello Spirito fino alla fine del mondo. Io sono certo di ciò che rimarrà alla fine, non la Chiesa del culto politico, ma la Chiesa della fede. Una Chiesa che non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a pochi anni fa, ma una Chiesa che conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte”.
(DI MATTEO MATZUZZI)

Joseph Ratzinger nasce da famiglia modesta e trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Traunstein, una piccola città vicino alla frontiera con l’Austria, a circa trenta chilometri da Salisburgo. Un periodo non semplice da lui chiamato “mozartiano”. Viene arruolato, come tutti i giovani di quell’età, nella gioventù nazista. Studia dal 1946 al 1951 filosofia e teologia presso la Scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga e presso l’Università di Monaco e viene ordinato sacerdote Il 29 giugno 1951. Due anni dopo si laurea in teologia con una dissertazione sul tema: “Popolo e Casa di Dio nella Dottrina della Chiesa di sant’Agostino”. Poi insegna all’Università di Ratisbona.
Una vastissima risonanza ha poi avuto la sua arringa pronunciata dinanzi all’Accademia cattolica bavarese sul tema: “Perché io sono ancora nella Chiesa?”. Ebbe a dichiarare con la sua consueta chiarezza: “Solo nella Chiesa è possibile essere cristiani e non accanto alla Chiesa”.
Importante il suo ruolo nel Concilio Vaticano II. Viene valorizzato da Paolo VI è diverrà il vero suggeritore della politica di Giovanni Paolo II.
Relatore alla Quinta Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi (1980) sul tema della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo, svolge un’ampia e puntuale analisi sulla situazione della famiglia nel mondo, sottolineando in proposito la crisi della cultura tradizionale di fronte alla mentalità tecnicistica e meramente razionale. L’amore dell’uomo e della donna non è cosa privata, né profana, né meramente biologica, ma qualcosa di sacro che introduce ad uno “stato”, ad una nuova forma di vita, permanente e responsabile. Conclude dicendo che la famiglia testimonia dinanzi al mondo una nuova umanità di fronte al dominio del materialismo, dell’edonismo e della permissività.
A lui vengono affidate le meditazioni della Via Crucis 2005 celebrata al Colosseo. In quell’indimenticabile Venerdì Santo, Giovanni Paolo II, stretto, quasi aggrappato al Crocifisso, in una struggente “icona” di sofferenza, ha ascoltato in silenzioso raccoglimento le parole di colui che sarebbe divenuto il suo Successore sulla Cattedra di Pietro. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24). Con queste parole il Signore ha offerto una interpretazione “eucaristica” e “sacramentale” della sua Passione. Ci mostra – secondo il cardinale Ratzinger – che la Via Crucis non è semplicemente una catena di dolore, di cose nefaste, ma è un mistero: è proprio questo processo nel quale il chicco di grano cade in terra e porta frutto. Con altre parole, ci mostra che la Passione è un’offerta di se stesso e questo sacrificio porta frutto e diventa quindi un dono per tutti. “Non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire per la sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!”. “Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa… Ti sei rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi. Salva e santifica la tua Chiesa. Salva e santifica tutti noi”.
Poco prima della morte di Giovanni Paolo II dirà “Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia, che in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce. Ritornò e fondò Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli”.

“Seguimi!” è la parola-chiave dell’omelia che il Cardinale Ratzinger rivolge al mondo intero durante le esequie del Santo Padre.
“”Seguimi!” Insieme al mandato di pascere il suo gregge, Cristo annunciò a Pietro il suo martirio. Con questa parola conclusiva e riassuntiva del dialogo sull’amore e sul mandato di pastore universale, il Signore richiama un altro dialogo, tenuto nel contesto dell’ultima cena. Qui Gesù aveva detto: “Dove vado io voi non potete venire”. Disse Pietro: “Signore, dove vai?”. Gli rispose Gesù: “Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi” (Gv 13, 33.36). Gesù dalla cena va alla croce, va alla risurrezione – entra nel mistero pasquale; Pietro ancora non lo può seguire. Adesso – dopo la risurrezione – è venuto questo momento, questo “più tardi”. Pascendo il gregge di Cristo, Pietro entra nel mistero pasquale, va verso la croce e la risurrezione. Il Signore lo dice con queste parole, “…quando eri più giovane… andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 18). Nel primo periodo del suo Pontificato il Santo Padre, ancora giovane e pieno di forze, sotto la guida di Cristo andava fino ai confini del mondo. Ma poi sempre più è entrato nella comunione delle sofferenze di Cristo, sempre più ha compreso la verità delle parole: “Un altro ti cingerà…”. E proprio in questa comunione col Signore sofferente ha instancabilmente e con rinnovata intensità annunciato il Vangelo, il mistero dell’amore che va fino alla fine (cfr Gv 13, 1)”.
Così da pontefice “Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità – ha poi esortato -. Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice san Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cfr Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.
Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. È quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo”. “Il nostro ministero – ha ricordato in conclusione – è un dono di Cristo agli uomini, per costruire il suo corpo – il mondo nuovo. Viviamo il nostro ministero così, come dono di Cristo agli uomini! Ma in questa ora, soprattutto, preghiamo con insistenza il Signore, perché dopo il grande dono di Papa Giovanni Paolo II, ci doni di nuovo un pastore secondo il suo cuore, un pastore che ci guidi alla conoscenza di Cristo, al suo amore, alla vera gioia”.

Questa la sua posizione sull’agnosticismo “L’uomo, che tutti conoscevano come intelligente e fortunato, è un idiota agli occhi di Dio: “Stolto” gli dice e di fronte all’autentico egli appare con tutti i suoi calcoli stranamente sciocco e corto di veduta, poiché nei suoi calcoli aveva dimenticato l’autentico: che la sua anima desiderava non soltanto averi e gioie, ma che si sarebbe trovata un giorno davanti a Dio. Questo intelligente stolto mi sembra un’immagine molto esatta del comportamento medio della gente moderna. Le nostre capacità tecniche ed economiche sono cresciute in modo prima inimmaginabile. La precisione dei nostri calcoli è meravigliosa. A dispetto di tutti gli orrori del nostro tempo si consolida in molti l’opinione che siamo vicini a realizzare la felicità più grande possibile del numero più grande possibile di uomini, e a dare infine inizio a una nuova fase della storia, una civilizzazione dell’umanità in cui tutti potranno mangiare, bere e godersela come vuole il cuore. Ma proprio in questo apparente avvicinamento all’autoredenzione dell’umanità erompono le sinistre esplosioni dal profondo dell’insaziata e oppressa anima umana e ci dicono: Stolto, hai dimenticato te stesso, la tua anima e la sua sete incolmabile, il suo desiderio di Dio. L’agnosticismo del nostro tempo, in apparenza così ragionevole, il quale lascia che Dio sia Dio per fare dell’uomo semplicemente un uomo, si dimostra una idiozia dalla vista corta. Ma lo scopo dei nostri esercizi dovrebbe consistere nell’ascoltare le parole che Dio ci rivolge, nel percepire il grido della nostra anima e riscoprire, nella sua profondità, il mistero di Dio. Soffermiamoci ancora un istante sulle prospettive che si aprono in questa riflessione prima di riprendere il filo dei nostri pensieri precedenti. Il proiettarsi dell’uomo in Dio, la ricerca e la strada verso il fondamento creatore di tutte le cose è qualcosa di molto diverso dal pensiero “precritico” o non critico. Al contrario, la negazione della questione di Dio, la rinuncia a questa elevata apertura dell’uomo è un atto di chiusura, è un dimenticare l’intimo grido del nostro essere.

In questo contesto Josef Pieper ha citato parole di Esiodo riprese dal cardinal Newman, nelle quali questa problematica viene all’espressione con inimitabile eleganza e precisione: “L’essere saggio con la testa di qualche altro… è certo più piccolo che il nostro sapere proprio, ma ha infinitamente più peso dello sterile orgoglio di colui che non realizza l’indipendenza del sapiente e al tempo stesso disprezza la dipendenza del credente” .Nella stessa direzione va un ragionamento di Newman stesso sul fondamentale rapporto dell’uomo verso la verità. Troppo spesso gli uomini sono inclini – così ragiona il grande filosofo della religione – a starsene tranquilli ad aspettare se mai arrivino a casa loro dimostrazioni della realtà della rivelazione, come se essi fossero nella posizione di arbitri e non di bisognosi. «Essi hanno deciso di esaminare l’Onnipotente in una maniera appassionata e oggettiva, in piena imparzialità, con la testa chiara». Ma l’uomo, che in tal modo si rende signore della verità, s’inganna. A un simile signore essa si sottrae e si apre soltanto a colui che le si avvicina con rispetto, con umiltà venerante.
(Da un estratto di “Guardare Cristo”, Jaca Book 1989)

La sua riflessione sulla morte “Da sempre l’uomo si è preoccupato dei suoi morti e ha cercato di dare loro una sorta di seconda vita attraverso l’attenzione, la cura, l’affetto. In un certo modo si vuole conservare la loro esperienza di vita; e, paradossalmente, come essi hanno vissuto, che cosa hanno amato, che cosa hanno temuto, che cosa hanno sperato e che cosa hanno detestato, noi lo scopriamo proprio dalle tombe, davanti alle quali si affollano ricordi. Esse sono quasi uno specchio del loro mondo.

Perché è così? Perché, nonostante la morte sia spesso un tema quasi proibito nella nostra società, e vi sia il tentativo continuo di levare dalla nostra mente il solo pensiero della morte, essa riguarda ciascuno di noi, riguarda l’uomo di ogni tempo e di ogni spazio. E davanti a questo mistero tutti, anche inconsciamente, cerchiamo qualcosa che ci inviti a sperare, un segnale che ci dia consolazione, che si apra qualche orizzonte, che offra ancora un futuro. La strada della morte, in realtà, è una via della speranza e percorrere i nostri cimiteri, come pure leggere le scritte sulle tombe è compiere un cammino segnato dalla speranza di eternità.

Ma ci chiediamo: perché proviamo timore davanti alla morte? Perché l’umanità, in una sua larga parte, mai si è rassegnata a credere che al di là di essa non vi sia semplicemente il nulla? Direi che le risposte sono molteplici: abbiamo timore davanti alla morte perché abbiamo paura del nulla, di questo partire verso qualcosa che non conosciamo, che ci è ignoto. E allora c’è in noi un senso di rifiuto perché non possiamo accettare che tutto ciò che di bello e di grande è stato realizzato durante un’intera esistenza, venga improvvisamente cancellato, cada nell’abisso del nulla. Soprattutto noi sentiamo che l’amore richiama e chiede eternità e non è possibile accettare che esso venga distrutto dalla morte in un solo momento.

Ancora, abbiamo timore davanti alla morte perché, quando ci troviamo verso la fine dell’esistenza, c’è la percezione che vi sia un giudizio sulle nostre azioni, su come abbiamo condotto la nostra vita, soprattutto su quei punti d’ombra che, con abilità, sappiamo spesso rimuovere o tentiamo di rimuovere dalla nostra coscienza. Direi che proprio la questione del giudizio è spesso sottesa alla cura dell’uomo di tutti i tempi per i defunti, all’attenzione verso le persone che sono state significative per lui e che non gli sono più accanto nel cammino della vita terrena. In un certo senso i gesti di affetto, di amore che circondano il defunto, sono un modo per proteggerlo nella convinzione che essi non rimangano senza effetto sul giudizio. Questo lo possiamo cogliere nella maggior parte delle culture che caratterizzano la storia dell’uomo.

Oggi il mondo è diventato, almeno apparentemente, molto più razionale, o meglio, si è diffusa la tendenza a pensare che ogni realtà debba essere affrontata con i criteri della scienza sperimentale, e che anche alla grande questione della morte si debba rispondere non tanto con la fede, ma partendo da conoscenze sperimentabili, empiriche. Non ci si rende sufficientemente conto, però, che proprio in questo modo si è finiti per cadere in forme di spiritismo, nel tentativo di avere un qualche contatto con il mondo al di là della morte, quasi immaginando che vi sia una realtà che, alla fine, è sarebbe una copia di quella presente.

Cari amici, la solennità di tutti i Santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci dicono che solamente chi può riconoscere una grande speranza nella morte, può anche vivere una vita a partire dalla speranza. Se noi riduciamo l’uomo esclusivamente alla sua dimensione orizzontale, a ciò che si può percepire empiricamente, la stessa vita perde il suo senso profondo. L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza per lui è troppo breve, è troppo limitata. L’uomo è spiegabile solamente se c’è un Amore che superi ogni isolamento, anche quello della morte, in una totalità che trascenda anche lo spazio e il tempo. L’uomo è spiegabile, trova il suo senso più profondo, solamente se c’è Dio. E noi sappiamo che Dio è uscito dalla sua lontananza e si è fatto vicino, è entrato nella nostra vita e ci dice: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno” (Gv 11,25-26).

Pensiamo un momento alla scena del Calvario e riascoltiamo le parole che Gesù, dall’alto della Croce, rivolge al malfattore crocifisso alla sua destra: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). Pensiamo ai due discepoli sulla strada di Emmaus, quando, dopo aver percorso un tratto di strada con Gesù Risorto, lo riconoscono e partono senza indugio verso Gerusalemme per annunciare la Risurrezione del Signore (cfr Lc 24,13-35). Alla mente ritornano con rinnovata chiarezza le parole del Maestro: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no non vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? (Gv 14,1-2). Dio si è veramente mostrato, è diventato accessibile, ha tanto amato il mondo “da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16), e nel supremo atto di amore della Croce, immergendosi nell’abisso della morte, l’ha vinta, è risorto ed ha aperto anche a noi le porte dell’eternità. Cristo ci sostiene attraverso la notte della morte che Egli stesso ha attraversato; è il Buon Pastore, alla cui guida ci si può affidare senza alcuna paura, poiché Egli conosce bene la strada, anche attraverso l’oscurità.

Ogni domenica, recitando il Credo, noi riaffermiamo questa verità. E nel recarci ai cimiteri a pregare con affetto e con amore per i nostri defunti, siamo invitati, ancora una volta, a rinnovare con coraggio e con forza la nostra fede nella vita eterna, anzi a vivere con questa grande speranza e testimoniarla al mondo: dietro il presente non c’è il nulla. E proprio la fede nella vita eterna dà al cristiano il coraggio di amare ancora più intensamente questa nostra terra e di lavorare per costruirle un futuro, per darle una vera e sicura speranza. Grazie.”

Cristo ed Agostino sono i suoi punti fermi. “Agostino può affermare che la Chiesa cattolica è la vera chiesa dei santi; i peccatori non sono realmente in essa, infatti la loro qualità di membro è quella parvenza che è propria del mundus sensibilis; d’altra parte, egli può mettere in evidenza che non è affare della chiesa espellere questi peccatori perché non è affare suo deporre il corpo di carne, bensì è affare del Signore che la risusciterà e la trasformerà nella sua vera forma di salvezza”.
Uomo coltissimo, non sbaglia una citazione è la mette al servizio del suo importante pensiero. Sulla pedofilia dirà che per la prima volta la Chiesa rinuncia “a essere societas perfecta”, e soprattutto conformandosi “al punto di vista della società laica” nel giudicare questioni come l’abuso sessuale. Una “vera svolta storica”. Denuncia la “sporcizia” nel clero e sceglie il Curato d’Ars come figura di riferimento per l’Anno sacerdotale.
Il 27 gennaio scorso, la citazione è stata il santo di Assisi: “Francesco mostrava sempre una grande deferenza verso i sacerdoti, e raccomandava di rispettarli sempre, anche nel caso in cui fossero personalmente poco degni… non dimentichiamo mai questo insegnamento: la santità dell’Eucaristia ci chiede di essere puri”. Ai preti irlandesi, assieme al “reato”, ha rimproverato anzitutto il peccato: “Avete violato la santità del sacramento dell’Ordine Sacro, in cui Cristo si rende presente in noi e nelle nostre azioni. Insieme al danno immenso causato alle vittime, un grande danno è stato perpetrato alla Chiesa”. Le istruzioni “De Delictis Gravioribus” da lui stilate quando era prefetto della Dottrina della fede, erano impartite non solo per “contribuire a evitare un crimine così grave, ma anche per proteggere con le necessarie sanzioni la santità del sacerdozio”. Ratzinger, da teologo e da Papa, ha sempre posto ai sacerdoti una asticella molto alta. Perché la realtà della chiesa “è nei santi”.
Benedetto XVI parla col mondo occidentale e laico, accetta le regole d’ingaggio ed è intellettualmente onesto quando invita al recupero della vera razionalità illuminista. Il “mondo”, la città degli uomini, non è un antagonista insidioso, e può anzi a volte rappresentare misteriosamente la condizione che permette alla chiesa di camminare nella storia e di purificarsi. “Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia”.

Uomo, pensatore, Cardinale, Pontefice mai banale e col quale qualsiasi persona pensante dovrebbe confrontarsi. Ora è tornato nella sua Casa del Padre. Addio Joseph.

J.V.

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