GIULIANO GALLETTA, IL PRINCIPIO SPERANZA E LA SCOMPARSA DELL’UTOPIA

GIULIANO GALLETTA, IL PRINCIPIO SPERANZA E LA SCOMPARSA DELL’UTOPIA

“È triste! È tutto un’illusione: Il futuro ci inganna da lontano, Non siamo più quel che ricordiamo, né osiamo pensare a ciò che siamo.” Questi bellissimi versi di George Byron (1788-1824) non sembrano indurre alla speranza, ma la speranza è ineliminabile – c’è sempre la speranza di trovare qualcuno vivo sotto le macerie – essa permette all’uomo di sopravvivere, o almeno di provarci. Qualcuno ha detto che bisogna sperare, se non altro che per disperazione.


Il filosofo Ernst Bloch (1885 -1977), ha fatto del “Principio speranza”, titolo del suo libro più famoso (pubblicato in tre volumi tra il 1953 e il 1959), il nucleo centrale di un pensiero che oggi sembra distinguersi per inattualità ma che, al contrario, nasconde alcune questioni cruciali che ci riguardano molto da vicino. È ancora pensabile un’idea di futuro? Possiamo tentare di liberarci dalla dittatura del presente? Siamo in grado di usare la memoria, il passato, nella direzione di nuove, udibili utopie?
L’idea di speranza è, infatti, strettamente connessa in Bloch a quella di utopia; il suo primo libro, scritto nel 1917 in piena Prima guerra mondiale (un momento storico in cui tutte le utopie stavano sprofondando nel fango delle trincee) si intitolava, per l’appunto, “Lo spirito dell’utopia”.
Le due parole chiave del pensiero di Bloch si ritrovano oggi riunite nel titolo del volume “Speranza e utopia” (Mimesis) in cui sono raccolte una serie di dialoghi di Bloch con intellettuali e grandi filosofi – e amici a dispetto delle divergenze teoriche – quali György Lukács (1885-1971 ) e Theodor Adorno (1903-1969). Bloch, di origine ebraica, è stato un marxista eterodosso, negli anni Cinquanta scelse di vivere e insegnare nella DDR, prima di scontrarsi con il regime e tornare in Occidente, proprio nell’anno della costruzione del Muro di Berlino. Il suo antidogmatismo e antistoricismo lo avvicinano anche un altro grande filosofo “anomalo” del Novecento, Walter Benjamin.


Per Bloch al centro del pensiero rivoluzionario c’é il “principio speranza”, come rifiuto di ogni dialettica limitata alla semplice analisi delle condizioni “strutturali”, storiche ed economich e con l’accentuazione della funzione liberatrice dell’utopia, del “non ancora”. “Anche se la speranza non fa altro che sormontare l’orizzonte” ha scritto Bloch “mentre solo la conoscenza del reale, tramite la prassi, lo sposta in avanti saldamente, è pur sempre essa e soltanto essa che fa conquistare l’incoraggiante e consolante comprensione del mondo”. Uno dei dialoghi certamente più interessanti del volume è certamente quello, radiofonico, del 1964, con Adorno, filosofo “pessimista” e anti-utopista per eccellenza. È straordinario assistere all’incontro fra due personalità di questo livello, il cui unico obiettivo è il pensiero, che non devono difendere posizioni preconcette, ma sono capaci di trarre dai loro dissensi idee sempre nuove.
Per Adorno: “In tutta l’utopia c’è qualcosa di profondamente contraddittorio, il fatto che da una parte essa non può venire affatto pensata senza l’abolizione della morte e però, d’altra parte, a questo stesso pensiero inerisce il peso della morte”. Per lui la vera utopia non ha niente a che vedere con il progresso ma è la trasformazione della totalità storico-sociale, attraverso quella la disincantata critica negativa.
Bloch sa bene il che fallimento è insito nell’idea stessa di speranza, infatti, spiega: “È proprio della speranza, che possa essere delusa, che debba andare delusa, perché la speranza non è fiducia, ma è circondata dal pericolo e da ciò che può anche essere diverso. La cosa però non è risolta, è in gestazione, resta in sospeso, perché noi viaggiamo in una terra incognita, che anzi ancora non esiste affatto, che in parte soltanto emerge dal mare della possibilità, mentre ci andiamo, come viandanti, bussola e terra al tempo stesso.”


Si può dire, forse, che la speranza permanga, nella realtà attuale, come una sorta di istinto di sopravvivenza mentre l’utopia sembra del tutto scomparsa dal nostro orizzonte culturale, politico e psicologico, relegata nel magazzino dei “sogni ad occhi aperti”, sepolta dal peso quasi insostenibile del “realismo”, se non del cinismo. Le uniche utopie che sembrano sopravvivere sono quelle scientifiche e tecnologiche, che hanno però la capacità di trasformarsi, più velocemente di quanto noi possiamo accorgerci, in distopie, ovvero nel loro contrario, come già accaduto, peraltro, con le grandi utopie politiche del Novecento.
Foucalt, negli anni Sessanta, sosteneva che le utopie sono “consolatorie”, ma oggi si può ben dire che esse non consolino più nessuno. I ragazzi del movimento Friday for future scendono infatti in piazza non per un futuro “migliore” ma semplicemente per “un” futuro. Rileggere Bloch potrebbe suggerirci il dubbio che il pensiero utopico sia stato accantonato un po’ troppo facilmente e conservi ancora una sua segreta potenzialità. Bloch lo ha pensato sino all’ultimo tanto da concludere il dialogo con Adorno con una citazione del dandy Oscar Wilde (1854-1900): “Una carta del mondo non merita neppure uno sguardo, se non riporta il paese di Utopia”.

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