STALINGRADO

STALINGRADO

OTTANT’ANNI FA, IL 23 AGOSTO

Quel giorno, attaccando Stalingrado, Hitler perse la guerra

L’assedio, le stragi, poi Stalin fece scattare “Urano”

Il generale Von Paulus, alla testa della sesta armata, era convinto di vincere in pochi giorni. La battaglia durò sei mesi e si concluse con la disfatta tedesca.

“I primi aerei comparvero verso le quattro del pomeriggio.. Avevano appena passato le campagne di Burkovskij, vicino al Volga, quando si udì un sibilo, subito seguito dalle prime esplosioni e sugli edifici in fiamme si levarono alti il fumo e la polvere. L’aria era trasparente e gli aerei perfettamente visibili. Il sole splendeva e i suoi raggi accendevano migliaia di finestre; con gli occhi al cielo la gente guardava gli aerei tedeschi… Poi venne il silenzio, l’ultimo silenzio di Stalingrado”.

Così, nel suo capolavoro ricostruito solo un paio d’anni fa e uscito in Italia nel marzo scorso, Stalingrado, Vasilij Grossman descrive il vero inizio della battaglia destinata decidere il corso della guerra tra Germania e Unione Sovietica e probabilmente dell’intera Seconda Guerra Mondiale.

Il 23 agosto 1942, esattamente ottanta anni fa, gli aerei della Luftwaffe al comando del generale von Richtofen bombardarono per la prima volta a tappeto la città che per 400 anni si era chiamata Carycin, oggi è Volgograd ma portava allora il nome del capo assoluto dell’Unione sovietica. Due giorni prima la VI armata della Wehrmacht guidata dal generale von Paulus aveva passato il fiume Don, stabilito alcune teste di ponte e si preparava a lanciare l’attacco finale. La città sul Volga era isolata dalla Panzer Division del generale Hube a nord e dall’Armata corazzata del generale Hoth a sud. Gran parte della popolazione era imbottigliata nella città. Stalin in persona aveva ordinato di non evacuare la città per ricollocare a est le importantissime fabbriche e le acciaierie.

I sovietici si ritiravano sia pur combattendo senza tregua, da quando il 22 giugno dell’anno precedente la Germania aveva attaccato a sorpresa l’Urss, avviando l’operazione Barbarossa. Grossman, giornalista in prima linea per tutta la durata della guerra, descrive perfettamente nel suo libro la frustrazione e la disperazione provocate da questo continuo arretramento, dallo sfollamento di una città dopo l’altra, dalla perdita dell’Ucraina, della Bielorussia, dall’avanzata continua in Russia. A Stalingrado i sovietici decisero di resistere come avevano fatto a Mosca, dove le truppe tedesche e degli alleati italiani e romeni erano state fermate e respinte. Hitler era altrettanto deciso a dare sul Volga il colpo di grazia all’Armata Rossa. L’ordine perentorio era prendere la città di Stalin entro il 25 agosto.

Nonostante la fulminea avanzata e le immense conquiste, l’operazione Barbarossa non era stata il successo sperato. Il progetto era ancora una volta la Blitzkrieg, una guerra lampo che avrebbe dovuto concludersi in otto settimane, prima dell’inverno. La resistenza di Mosca e di Leningrado, ancora cinta d’assedio, avevano vanificato il disegno. Hitler però era riuscito, a differenza di Napoleone oltre un secolo prima, a superare il terribile inverno russo ed era senza dubbio un enorme vittoria. In primavera era deciso a sferrare il colpo finale. La Direttiva 41, diramata il 5 aprile 1942 dal Fuhrer, dettava le linee dell’Operazione Blu: una poderosa offensiva concentrata solo nella Russia meridionale con gli obiettivi di conquistare i bacini del Don e del Volga e Stalingrado (fondamentale sia come postazione strategica che come centro produttivo), e impossessarsi delle aree petrolifere del Caucaso.

L’Armata di Hitler contava un milione di uomini, oltre 2.500 carri armati. Altre quattro armate di rinforzo italiane, romene e ungheresi che schieravano altri 600.000 soldati. Rallentata dalla resistenza sovietica a Sebastopoli l’Operazione Blu fu lanciata il 28 giugno, invece che all’inizio di maggio come previsto. Il fronte meridionale russo fu immediatamente sfondato. I caduti nell’Armata Rossa, prima dell’attacco diretto a Stalingrado, furono oltre 400.000. Come in un incubo i sovietici si ritrovarono nella stessa situazione dell’anno precedente: costretti ad arretrare inesorabilmente mentre a Mosca Churchill dissipava la speranza di un alleggerimento della situazione grazie all’apertura di un secondo fronte in Europa: sarebbero stati necessari ancora mesi. I sovietici dovevano vedersela da soli. Il 28 luglio, mentre la corsa dei panzer di Paulus sembrava inarrestabile, Stalin diramò l’ordine n. 227. Il dittatore era consapevole di quanto diffusa fosse la tendenza a ritirarsi contando sulla vastità della Russia a oriente. Sapeva che le diserzioni crescevano in modo esponenziale. L’ordine fu dunque tassativo: “E’ ora di smettere di ritirarsi. Non un passo indietro…D’ora in poi la legge ferrea della disciplina per ogni ufficiale, soldato e commissario politico dovrà essere: Non un singolo passo indietro senza un ordine dal più alto comando. Comandanti di compagnie, battaglioni, reggimenti e divisioni, così come i commissari e i commissari politici dei corrispondenti ranghi che si ritirano senza ordine dall’alto sono dei traditori della Madrepatria. Dovranno essere trattati come traditori della Madrepatria. Nei giorni seguenti Stalin inviò nella città sotto attacco Nikita Chrusciov, futuro leader dell’Urss, come commissario politico. Sostituì il comandante del Fronte di Stalingrado con uno dei suoi generali più duri ed esperti, Andrej Eremenko, mise a capo della principale armata della città un altro dei suoi principali generali, Vasilij Cujkov, e alla fine di agosto raggiunse la città anche il principale stratega del Cremlino, il maresciallo Zukov. I bombardamenti su Stalingrado gli scontri alla periferia proseguirono fino al 13 settembre quando Paulus lanciò l’attacco frontale contro la città. I sovietici avevano sino a quel momento rallentato l’avanzata tedesca senza riuscire a fermarla. A partire dal 13 settembre la battaglia fu combattuta strada per strada, edificio per edificio. In condizione di inferiorità numerica e di mezzi, senza poter contare sul sostegno dell’aviazione, le truppe di Cujkov scelsero di fortificare singoli postazioni, fabbriche, rovine già bombardate, singoli palazzi dalle quali lanciavano soprattutto di notte incursioni e piccoli contrattacchi. Ma nella stessa giornata del 13 settembre, al Cremlino, Stalin, Zukov, il capo dell’Armata Rossa generale Vasilevskij e i vertici dello Stakva – l’Alto comando sovietico – prepararono un piano molto audace e destinato a capovolgere le sorti del conflitto: l’Operazione Urano. Una controffensiva basata su una manovra strategica a tenaglia in realtà molto semplice ma per il successo della quale era essenziale che rimanesse completamente segreta, in modo da cogliere gli attaccanti di sorpresa. Nella città la battaglia infuriò per due mesi. Il centro fu perso e ripreso più volte. Alla fine di settembre Paulus piantò la bandiera con la svastica nella centralissima piazza rossa. Alcuni palazzi e alcune fabbriche, soprattutto quella di trattori, diventarono gli epicentri della battaglia. I cecchini, dall’una e dall’altra parte, erano sempre in agguato ed alcuni dei più precisi e micidiali diventarono veri eroi popolari. La battaglia proseguì senza sosta, ogni giorno, anche se in due occasioni, il 14 ottobre e l’11 novembre, i tedeschi tentarono di chiudere la partita con offensive massicce. Nel giro di una settimana l’ultima offensiva di Paulus, quella di novembre, arrivò ad un passo dalla vittoria. La resistenza russa era limitata a tre sole teste di ponte. In nessuna di queste tre aree la profondità di territorio controllata dai sovietici andava oltre un km e mezzo. Il 19 novembre i sovietici lanciarono la controffensiva cogliendo di sorpresa la Wehrmacht. La manovra a tenaglia dell’operazione Urano travolse prima i reparti ungheresi poi quelli tedeschi e costrinse Paulus a ritirare le truppe e i panzer dalla città per tentare una difesa di fronte al del tutto inatteso contrattacco. Nell’arco di 4 giorni la situazione sul campo appariva completamente rovesciata. Gli assedianti tedeschi erano ora assediati nella “sacca di Stalingrado”. Il 23 novembre è la vera data della svolta nella guerra mondiale. Da quel momento ad arretrare e a subire l’iniziativa dei sovietici e degli alleati sarebbe stata sempre l’Asse.

Il 24 novembre Hitler diramò un “ordine tassativo” che imponeva alla VI Armata di Paulus di resistere a ogni costo e mise a capo di un “Gruppo di armate del Don” il feldmaresciallo Erich von Manstein, con il compito di rompere l’assedio e liberare l’Armata di Paulus. La “Fortezza Stalingrado” nazista resistette molto più a lungo del previsto, prima nella convinzione che l’assedio sarebbe stato rotto presto poi, a partire dal natale 1942, senza più vere speranze di salvezza ma con il solo obiettivo di tenere impegnate su quel fronte quante più truppe sovietiche possibile per indebolire l’offensiva generale che era nel frattempo stata lanciata dalla Stavka.

Il 10 gennaio 1943 i sovietici lanciarono l’offensiva finale. Paulus fu fatto prigioniero il 26 gennaio. Pochi giorni prima Hitler lo aveva nominato feldmaresciallo, non per tributargli un riconoscimento ma per spingerlo al suicidio: nessun feldmaresciallo tedesco era mai stato fatto prigioniero. Paulus scelse di ignorare la spintarella e di farsi catturare vivo. Il 2 febbraio gli ultimi reparti tedeschi si arresero. Le perdite russe erano state di quasi 480mila morti. Quelle tedesche non sono mai state valutate ma vanno certamente oltre i 140mila morti solo nella fase dell’assedio sovietico alla sacca. I prigionieri, tra tedeschi, romeni, ungheresi e italiani furono oltre 300mila.

La maggior parte degli storici, ma non tutti, concorda nel ritenere la battaglia di Stalingrado il vero punto di svolta strategico della guerra. Ma sul ruolo incomparabile che ebbe sul piano psicologico e del morale degli eserciti coinvolti di dubbi non ce ne sono. La fine del Terzo Reich iniziò tra le rovine di Stalingrado.

(David Romoli, Il Riformista, Martedì 23 agosto 2022)

Le battaglie di Stalingrado, El-Alamein e Guadalcanal tra il 1942 e il 43 sono state decisive per la sconfitta dell’Asse. Stalingrado e Vita e destino di Vasilij Grossman sono da leggere assolutamente come una sorta di Guerra e pace del Novecento. Sui cecchini-eroi di Stalingrado si può vedere un buon film del 2001, Il nemico alle porte, di Jacques Annaud con Jud Lowe nella parte di Vasilij Zajcev, il vero eroe di Stalingrado, morto nel 1991. Oggi Zajcev è sepolto al Mamaev Kurgan, nei pressi della statua colossale La Madre Patria chiama! È stato così esaudito con il suo ultimo desiderio di essere seppellito vicino al monumento dei difensori di Stalingrado. La sua bara è inumata nei pressi di un monumento che riporta la sua famosa frase: “Non c’è terra per noi dietro il Volga.” Esistono dubbi sull’esistenza del suo antagonista, il Major Erwin König interpretato da Ed Harris.

Altri film:

La battaglia di Stalingrado (Сталинградская битва), (1949), un film in due parti di tipica produzione sovietica del periodo staliniano.

Ultime lettere da Stalingrado (Lettres de Stalingrad) (1969)

Stalingrad, (1989), film sovietico in due parti diretto da Yuri Ozerov

Stalingrad (1993), di Joseph Vilsmaier

Stalingrad (2013), di Fedor Bondarchuk

Tra le opere documentaristiche:

The World At War – Episode 9 Stalingrad (giugno 1942 – febbraio 1943)

L’assedio di Stalingrado, da La storia siamo noi di Gianni Minoli.

Altri libri notevoli oltre i due di Grossman:

L’armata tradita (1959) di Heinrich Gerlach

Nelle trincee di Stalingrado (1946) di Viktor Platonovič Nekrasov

Le Benevole (2006) di Jonathan Littell

J.V.

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