Rivoluzione francese. seconda parte

La Rivoluzione francese. Seconda parte

Dalla convocazione degli Stati generali alla Convenzione

   Nobiltà e Parlamenti non hanno intenzione di mutare il tradizionale procedimento di designazione e votazione degli Stati: un terzo dei rappresentanti per ogni ordine e il voto per ordine, con la qual cosa la maggioranza andrebbe comunque ai privilegiati; ma il Terzo stato rifiuta e chiede il raddoppio dei suoi delegati. E’ come se il Terzo stato confessasse di voler controllare la futura Assemblea dal momento che si danno per scontate inoltre alcune alleanze con una parte del Clero e della Nobiltà: il partito “patriota” che sostiene la campagna per il “raddoppiamento” concilia le esigenze dei borghesi con quelle di un cospicuo numero di aristocratici liberali. Una grande ondata di speranza e di riconciliazione generale assale il regno come una febbre: accanto ai borghesi troviamo alcuni eredi dei più prestigiosi nomi del paese come La Fayette “l’americano”, il duca di Aiguillon, il duca de La Rochefoucauld; questi grandi aristocratici mantengono tuttavia un certo distacco dai Barnave e Brisset, essi sanno che la nobiltà deve adeguarsi ai tempi nuovi, desiderano il cambiamento affinché tutto, o quasi, resti come prima. I borghesi vedranno in altri nobili un punto di riferimento, nobili magari decaduti o comunque che hanno perso il loro privilegio e per questo sono più vicini al Terzo stato, del quale prendono la guida; un nome su tutti: il visconte di Mirabeau, il personaggio forse più importante di tutta la prima fase rivoluzionaria. Al Terzo stato non basta la battaglia antiassolutista, quella è già vinta in partenza! il Terzo stato vuole l’uguaglianza, vuole con tutte le sue forze la fine dell’odiata divisione sociale in ceti, vuole porre fine una volta per tutte al razzismo per nascita e mentre i componenti degli ordini privilegiati sono fra loro divisi, tutti i borghesi si riconoscono nell’ambizione egualitaria; come dice Furet << l’onore borghese respinto è divenuto l’uguaglianza >>. Anche Necker è d’accordo coi borghesi ma non può palesare la sua opinione ai notabili, è già sin troppo odiato ed invidiato. Grazie alla mediazione della regina, inviperita per la caduta del suo amico Brienne, e del re, furioso per la rivolta della “sua nobiltà”, il ginevrino piega le opposizioni dei notabili di Calonne e il 27 dicembre 1788 riesce ad ottenere il “raddoppiamento”, anche se non si fa parola del voto per persona: se si dovesse per testa la situazione diverrebbe esplosiva e il ministro per il momento preferisce temporeggiare. Come avviene spesso nei momenti rivoluzionari, ciò che gli uomini dilazionano diventa improrogabile a causa degli eventi e nella fattispecie l’acceleratore della storia assume le sembianze della crisi economica: cattivo raccolto, piogge e grandinate sconvolgono il paese, la disoccupazione incalza e ai primi dell’anno fatidico ci sono più di diecimila disoccupati nella sola Lione. I prezzi aumentano in modo vertiginoso, cresce il numero dei vagabondi; la miseria genera violenza e la violenza è il sale del pane rivoluzionario. Scoppiano rivolte in tutta la Francia, i contadini minacciano i signori, il popolino di Parigi assalta la grande fabbrica del signor Réveillon prima di lasciarsi massacrare dai soldati, gli intendenti sono minacciati da contadini ridotti letteralmente in miseria. Non si tratta di una delle tante rivolte per il pane dei secoli precedenti, questa volta esiste un collante rivoluzionario preciso e i tempi sono maturi per decretare quanto meno la fine dell’assolutismo: il Terzo stato si fa garante del buon diritto di tutti gli uomini all’uguaglianza; poco importa se gli interessi del popolino cittadino o dei contadini sono diversi da quelli dei grandi borghesi, di questo si parlerà dopo, per ora bisogna abbattere l’odiato privilegio. Quando i nobili si accorgeranno di quale mostro abbiano messo in movimento col loro egoismo di casta, sarà troppo tardi: verranno travolti assieme a quel re che loro per primi non hanno rispettato e non hanno aiutato a fronteggiare una gravissima crisi finanziaria. La Francia della fine del secolo è un paese ricco ma, come si è visto, dissestato finanziariamente: dalla mancata soluzione di un problema fiscale nascerà il grande cambiamento epocale. Il Terzo stato salda tutte le esigenze dei non privilegiati chiedendo tre cose: fine del privilegio, nuova ripartizione delle imposte e una profonda riforma della società politica. L’eccitazione rivoluzionaria cresce agli inizi dell’anno 1789 mentre si vota per l’elezione dei rappresentanti che dovranno recarsi agli Stati generali; cresce la violenza verbale dei pamphlets contro la monarchia, aumenta la violenza dei miserabili, parole d’ordine rivoluzionarie partono dallo stesso Palazzo reale dove qualcuno, molto vicino alle teste coronate, forse vorrebbe vedere cadere quelle teste, per potersi sostituire a loro: i fratelli minori del re riusciranno nella famigerata impresa e saliranno sul trono di Francia dopo la rivoluzione; è singolare che il bersaglio migliore per la critica moralistica, la regina, venga indicato alla canaglia di piazza, proprio dal conte d’Artois. La regina viene data in pasto alle masse rivoluzionarie perché col suo dissennato, ma in fondo incolpevole comportamento, rappresenta un collante fortissimo per la rivoluzione: essa è il simbolo dell’assolutismo e della corte corrotta e i suoi peggiori accusatori erano stati beneficiati da lei sino al giorno prima. La storia si ripete sempre nelle stesse forme!

   Nel febbraio viene pubblicato il famoso Che cos’è il Terzo stato? di Sieyès, il quale esclude drasticamente la nobiltà dalla nazione: questa classe, a causa del suo ozio, non fa parte della nazione! La laboriosità borghese risulta vincente, sul piano dell’immagine, contro l’ozio nobiliare. I Cahiers de doléances fanno il resto: essi sono la più grande consultazione della storia moderna, rappresentano la grande protesta di oltre venti milioni di umiliati e offesi. Se è vero, ed è stato detto da molti, che essi sono addomesticati dalla penna borghese, è altrettanto vero che esprimono l’insostenibilità della società del privilegio; leggendo questi quaderni si comprende la rabbia repressa per secoli, l’odio del contadino verso il signore, l’odio del borghese laico verso il ricco ed ingiusto clero di Francia, la volontà feroce di chi nobile non è, di sostituire il merito e l’inteligenza al sangue! Chi oggi è abituato ad una relativa libertà, fatica a comprendere cosa significhi la mancanza totale di libertà o cosa significhi vedersi preclusa ogni possibilità di avanzamento sociale perché di sangue popolare o borghese. Gli Stati generali stanno per aprirsi in un contesto diverso da quello per cui la monarchia li aveva convocati: non si tratta di un ricorso finanziario ma di un compito ben più grave ed importante che è quello di “rigenerare” il regno mediante una nuova costituzione che garantisca i diritti naturali e la tolleranza. Il re dovrebbe essere il garante di questa operazione; egli non è più un sovrano assoluto prima ancora dell’apertura dell’assemblea: quando se ne renderà conto non sarà più neppure il garante. Luigi, come in una sorta di via crucis obbligata, scivolerà verso il baratro e con la sua persona simboleggierà tutto l’antico regime. Per il momento comunque nessuno vuole la sua testa; per il momento si vuole da li soltanto che sia il garante supremo di una nuova società. La nobiltà ha capito che il Terzo stato vuole distruggere il privilegio ed è terrorizzata da quanto essa stessa ha partorito; per il re questa potrebbe essere la grande occasione: umiliare i nobili che glia hanno così a lungo negato i finanziamenti a causa di un egoismo di casta pervicace e nefasto, dare garanzie al Terzo stato, essere re di tutti i buoni francesi, governare sulle divisioni. Enrico IV e Luigi XIV avrebbero colto immediatamente questa ghiotta opportunità ma il “povero uomo”, pur essendo molto meno stupido di quanto certa malevola storiografia lo dipinga, non aveva la forza necessaria per imporsi sulle divisioni e nessuno era in grado di aiutarlo, tanto meno l’unico uomo della sua corte: sua moglie. Siamo giunti al 5 maggio 1789, giorno fatidico di apertura degli Stati generali; in cinque mesi, tra aprile ed ottobre, il corso della Storia subirà un’accelerazione terrificante,  travolgendo la società di antico regime, rimescolando tutte le carte del mazzo, distruggendo fortune e creandone altre: da questo momento la rivoluzione, il suo culto e l’orrore verso di lei, saranno sinonimo di modernità e di uguaglianza. Cosa sia davvero questa uguaglianza è , casomai, problema dell’oggi, posto comunque intelligentemente sul tappeto già dalla generazione di Tocqueville; a noi oggi conviene riflettere seriamente sul concetto di uguaglianza dal momento che nel nostro secolo i dittatori vanno spesso al potere con libere elezioni, ma in questa sede si tratta di comprendere come questa magica parola abbia rappresentato per i francesi di fine settecento una formula  in grado di abbattere barriere secolari, liberare forze nuove, riscattare gli oppressi e lanciare sul palcoscenico più importante uomini come Robespierre o Napoleone che soltanto pochi anni prima sarebbero vissuti nel più completo anonimato. Senza voler indulgere al sentimentalismo è comunque piacevole ed emozionante pensare che per ogni uomo, almeno sulla carta, grazie agli avvenimenti dell’estate dell’89, era possibile una nuova dignità, la possibilità di essere considerato e di essere davvero aristocratico entrando a far parte di una nobiltà del merito anzichè del sangue. Le élites illuministiche che avevano preparato il terreno per tutto il secolo non pensavano però che il mutamento sarebbe stato così repentino: i filosofi avevano trascurato le conseguenze dell’odio popolare, della violenza dei diseredati, dell’ansia di giustizia di quanti erano oppressi e vessati in ogni modo. Più che di rivoluzione si dovrebbe parlare di rivoluzioni; in questa fase ne abbiamo almeno tre: una è quella degli illuminati del Terzo stato fatta essenzialmente di grandi idee e arditi progetti politici; assieme a questa ne abbiamo una del popolo di Parigi e una delle campagne francesi: da questo incontro-scontro nasce la coscienza rivoluzionaria della nazione e si può dire che il caso ha giocato, come sempre del resto, il ruolo decisivo con buon pace di tutte le astuzie della ragione. Per il momento il Terzo stato garantisce le tre rivoluzioni; i suoi deputati, rifiutando di piegarsi al re, cambiano il corso della Storia. Rigidamente vestiti di nero, il 5 maggio 1789, entrano nella grande sala dell’Hotel des Menus Plaisirs dove già siedono gli altri due ordini, il clero a destra della famiglia reale seduta sui troni in fondo alla sala, la nobiltà a sinistra. Clero e nobiltà sembra facciano a gara nello sfoggiare abiti di gran lusso e d’altro canto chi si avvia alla morte si aggrappa alla vita e ai suoi segni esteriori; i loro abiti contrastano col rigore silenzioso e austero dei “rappresentanti del popolo”, i quali vengono maldestramente tenuti in piedi per ore dal cerimoniale e dalla volontà della regina che odia questi uomini tetri i quali non provano, a suo parere, nessun sentimento di filiale affetto per il loro buon padre, il re di Francia; essi sono, ai suoi occhi, colpevoli di voler infrangere il mondo nel quale lei è cresciuta, ma sopra ogni altra cosa sono colpevoli di non comprendere il suo dramma di madre dal momento che il delfino, il suo primogenito sta morendo. Cosa vogliono questi uomini impietosi da lei e dal suo regale consorte? Come osano essi, non nobili, abusare della pazienza del re di Francia? Che stiano al loro posto e misurino l’infinita distanza che li separa dal rango privilegiato! I rappresentanti del popolo sopportano con sempre minore pazienza le umiliazioni del cerimoniale e sanno che la tempesta scoppierà da lì a poco; tra loro si confonde un deputato di Arras, minuto e dalla voce stridula, che tra pochi anni chiederà la testa del cittadino Luigi Capeto nel corso di un drammatico processo politico. Ancora non è stato risolto il problema del voto per testa o per ordine; Luigi manifesta la sua volontà di attenersi, nel corso dei lavori, al solo esame della questione finanziaria, ma alla sua politica manca l’appoggio delle classi alle quali ha deciso di appoggiarsi: mentre il Terzo stato è compatto, nobiltà e clero sono dilaniate da divisioni interne che non lasciano presagire nulla di buono per il sovrano. Alcuni nobili sono addirittura schierati col Terzo stato, a volte per sacrosanta convinzione, altre per spocchia autenticamente nobiliare e per volntà di distinzione. Ciò che stupisce è la compattezza borghese degli uomini vestiti di nero; tra loro non ci sono contadini ed operai! in maggioranza sono uomini di legge che vengono dalla provincia e non si sentono intimiditi dalla capitale: Le Chapelier, Barnave e Buzot sono sullo stesso piano dell’accademico parigino Bailly. Con mossa abile lasciano in primo piano un uomo rifiutato dal suo ordine, un visconte decaduto, chiaccherato e dal passato poco chiaro, ma terribilmente abile e dalla magnetica personalità: Mirabeau. Fin dal giorno 6 il Terzo stato assume il nome di “Comune” e tiene testa al re rifiutando per oltre un mese di decidere separatamente dagli altri ordini. Il mese di maggio è quello della rivolta passiva; forti del numero, i rappresentanti del popolo aspettano e lasciano che il re si consumi nell’indecisione.

    Il 10 giugno, su richiesta di Sieyès, invitano le altre classi a unirsi a loro per una comune verifica dei poteri di “tuti i rappresenanti della nazione”. Scattano alcune alleanze, il fronte clericale si divide e il 17 l’assemblea, sempre su invito di Sieyès, assume il nome di Assemblea nazionale. Un nuovo potere è stato creato, non esiste più soltanto il potere del re, la rivoluzione è in atto! Il 18 pone i creditori dello stato << sotto la tutela dell’onore e della lealtà della nazione francese >>. In modo elegante si dice ai borghesi parigini che la bancarotta non è parola del vocabolario rivoluzionario, essi possono dare fiducia ai nuovi uomini politici. Gli schieramenti prendono coscienza dell’enormità della posta in gioco: un terzo del clero e della nobiltà passa al Terzo stato, ma coloro che restano si ricompattano dietro il protettore naurale del privilegio: Luigi XVI. Occorre vedere se le spalle del re saranno così grandi da saper proteggere ciò che resta in piedi dell’antica società. Da questo momento non ci saranno più nascondimenti e mezze misure, tutti sanno che partita si sta giocando e devono scegliere il territorio di appartenenza. Luigi ha sbagliato, non ha tenuto in buon conto le ragioni della borghesia francese, ha deciso di difendere a spada tratta il privilegio; da questo momento aggiungerà errore ad errore perdendosi in una guerra combattuta da generali nemici troppo più abili di lui: accetterà tutto con rassegnata e regale consapevolezza quasi fosse lieto di togliersi dalle spalle un fardello troppo pesante. Forse il fardello era davvero troppo pesante per un uomo che non avrebbe voluto fare il re e che lo divenne soltanto per caso; c’è in lui qualcosa di stupido o di infinitamente saggio, dipende dall’angolazione dello spettatore: in utti i momenti tragici della sua breve vita, mentre Maria Antonietta si dispera, urla e piange come moglie e madre di re, lui chiede inevitabilmente un pezzo di formaggio e una bottiglia di vino, quasi gli avvenimenti drammatici riguardassero altri e non la sua persona. Non gli verranno mai meno la bonomia e l’appetito come se tutto fosse già stato previsto dalla sua mente: nella pesante berlina che fugge da Parigi, nella bottega di Soult, nella prigione del Tempio, di fronte al boia  non perderà la calma e il controllo dei nervi smentendo quanti hanno preteso fare di questo sfortunato una macchietta. Luigi era uomo ricco di buon senso, ma il solo buon senso non è sufficiente in momenti nei quali cambia il corso della storia mondiale. Il 19 giugno nobili e vescovi fedeli alla monarchia si recano a Marly dove Luigi e Maria Antonietta si sono rifugiati, chiusi nel loro dolore a causa della morte del delfino, ottenendo che venga fissata una seduta in sua presenza per il giorno 23. Intanto, adducendo a scusa i preparativi per la seduta, la grande sala dei Menus viene chiusa e il giorno 20, quando i deputati dell’Assemblea nazionale trovano la porta sbarrata, decidono di riunirsi in un’altra sala vicina, adibita al gioco della pallacorda. Qui avrebbero giurato << di non separarsi mai e di riunirsi ogni volta che le circostanze lo avessero richiesto , fino a che non fosse stata decisa la costituzione del regno, posta su basi solide >>. In questo modo l’Assemblea mette le mani avanti di fronte ad eventuali minacce del re; ma cosa vuole Luigi? Lo dirà il giorno 23 per la prima ed unica volta; in due dichiarazioni che vengono lette ad alta voce da uno speaker egli decide che le tassazioni siano approvate dagli Stati generali, concede la libertà di stampa e la decentralizzazione amministrativa, ma non si pronuncia sulla votazione per testa e mantiene in vigore le vecchie gerarchie anche se confida che i privilegiati accettino l’uguaglianza fiscale. Il suo arbitraggio appare iniquo agli occhi della borghesia e quando il marchese di Dreux-Brézé, mastro di cerimonie, dice ai silenziosi uomini del Terzo stato: <<Signori, conoscete le intenzioni del re >>, Mirabeau grida: <<Non lasceremo i nostri posti che di fronte alla forza delle baionette>>. La resistenza tenace degli uomini in abito nero induce Luigi ad invitare clero e nobiltà ad unirsi al Terzo stato e così dal 27 giugno si trovano di fronte due poteri: l’Assemblea e il re. Sia chiaro che questi due poteri non sono incompatibili dal momento che essi si riconoscono e si accettano: è morto l’assolutismo ma potrebbe vivere la monarchia costituzionale, visto che la monarchia aristocratica è abortita sul nascere. Gli avvocati vogliono che l’Assemblea tratti col sovrano, ma cosa vuole il sovrano? non lo sa bene neppure lui e così prevalgono i cattivi consiglieri, quelli che esigono la rivincita contro il Terzo stato; tra questi la regina stessa e i fratelli del re, la cricca di scrocconi e dissennati che vive a soese di Maria Antonietta e coloro che vorrebbero una monarchia con un altro re. I dintorni di Parigi si riempiono di militari ottenendo l’unico effetto di saldare la lotta dell’Assemblea con quella della capitale. Intanto aumentano i prezzi e la crisi economica si fa sempre più pesante: quasi simbolicamente, il 14 luglio, giorno della caduta della Bastiglia, il prezzo del pane sarà il più alto del secolo; la paura della bancarotta terrorizza i commercianti e tutti coloro che vivono di rendita. Prende corpo un fantomatico “complotto aristocratico” gonfiato ad arte dagli agitatori rivoluzionari e perfettamente adeguato alle esigenze millenaristiche del popolo; occorre trovare un colpevole e lo si individua nella regina, rea di condotta disinvolta e di sperperare il pubblico denaro. Gli stessi soldati, stanchi delle vessazioni nobiliari, stanno dalla parte del popolo di Parigi; il re ha bisogno di truppe fedeli ma il loro arrivo nella capitale suona come una provocazione. L’11 luglio, per colmare la misura, il re licenzia Necker e i ministri liberali: il nuovo governo Breteuil significa bancarotta e controrivoluzione. Sin dal 12 la città è in mano al popolo; i soldati del re sono ricacciati verso il Campo di Marte, il 13 vengono saccheggiate le armerie, nella notte tra il 13 e il 14 nasce la Guardia Nazionale; all’alba del 14 viene i rivoluzionari si impadroniscono dell’Hotel des Invalides entrando così in possesso di più di trentamila fucili. Qualcuno pensa di trovare altre armi nella costruzione-simbolo dell’antico regime, la Bastiglia, che con le sue otto torri impedisce l’accesso al Faubourg Saint-Antoine: la sua distruzione viene sentita come sinonimo di libertà; ne patisce le conseguenze il povero governatore De Launey la cui testa conficcata su una picca viene trasportata sino a palazzo reale. Ovviamente in quel momento alla Bastiglia si trovavano ben pochi prigionieri e nessun politico, inoltre l’avvenimento non rivestiva l’importanza grandiosa che soltanto il futuro gli darà; si trattò comunque del primo grande massacro indiscriminato del periodo rivoluzionario, il primo di una lunga serie; molti innocenti verranno giustiziati e nella strategia dell’orrore alcuni rivoluzionari e controrivoluzionari si contraddistingueranno per ferocia senza limiti. Anche coloro che avrebbero voluto fermare le carneficine si dimostreranno timorosi, spesso giustamente, di essere scambiati per pavidi o traditori, avvallando così con la passività, i massacri, le epurazioni, i tradimenti e i delitti. “Gli dei hanno sete” dice Anatole France, e la sete di sangue sembra inestinguibile raggiungendo vette impressionanti in nome della giustizia rivoluzionaria o del ritorno all’ordine termidoriano o monarchico. Il 22 luglio viene impiccato un uomo del governo Breteuil, Foullon de Doué, insieme al suocero intendente di Parigi e colpevole, secondo il popolo, di aver fatto tagliare il grano ancora immaturo. Luigi intanto dimostra la sua incertezza e il 16 richiama Necker; il 17 si reca a Parigi e legittima le nuove istituzioni nate dalla rivoluzione, Bailly e La Fayette, rispettivamente sindaco della capitale e comandante della Guardia nazionale. Il re attacca al suo copricapo la coccarda blu e rossa della municipalità parigina, la Fayette vi aggiunge il bianco borbonico facendo così nascere il tricolore francese; il popolo, prima esitante sul comportamento da tenere, ora applaude il suo sovrano e la famiglia reale. Strano destino quello di Luigi: ogni volta che perderà potere, e questo accadrà spesso negli anni a venire, verrà acclamato dalla folla; mentre egli sorride al suo popolo, la regina sa che gli apllausi sono soltanto un segno esteriore e momentaneo, ella comprende che ci sarà da combattere per non perdere il trono, non si fida di quell’intrigante La Fayette che considera, con buone ragioni, esclusivamente in cerca di gloria personale. L’esempio della Guardia nazionale della capitale contagia tutto il paese e ovunque gli intendenti, simbolo dell’assolutismo, non hanno più alcun potere: le municipalità hanno vinto contro l’assolutismo. Là dove avevano fallito le rivendicazioni centrifughe nobiliari, hanno prevalso valori borghesi come quelli di uguaglianza e fratellanza; si costituiscono federazioni in tutta la Francia. la coscienza borghese non viene ancora offesa dalle violenze popolari che scandiscono i passaggi della rivoluzione. La nobiltà che ha trovato la sua ragion d’essere storica nell’esercizio delle armi e nella guerra, ora non è in grado di battersi giacché dal tempo del Gran re passa il proprio tempo ad oziare e a preparare la rivoluzione illuminista ed intellettuale che ora la travolge: non avendo compreso l’approssimarsi della tempesta, chiusa nel suo smisurato orgoglio di casta, ora non sa reagire e trova nella fuga, e quindi nell’esportazione di capitali all’estero, l’unico rimedio contro la canaglia rivoluzionaria: all’Artois e al Condé seguono i Conti, i Polignac, lo stesso Breteuil e il duca di Enghien. I reali di Francia si aggirano nell’immensa Versailles ormai vuota: la loro nobiltà li ha abbandonati dopo aver dato il via alla piena che tra poco travolgerà la plurisecolare monarchia capetingia: infatti inizia anche la rivoluzione delle masse, le quali esigono, a buon diritto, la loro parte nel banchetto.

    Nella seconda metà di luglio i contadini dànno fuoco agli archivi, assaltano i castelli e alle abbazie, distruggono i documenti che li inchiodano alla terra e al diritto signorile; la violenza accumulata per secoli esplode furiosamente dando corpo al fenomeno chiamato dagli storici la “Grande paura”: complotto aristocratico, invasione stranieri, echi dei massacri parigini, paura dei briganti, superstizione contadina e volontà rabbiosa di ribellione sono tutti elementi che si saldano in un coacervo di terrificante violenza. Ora anche i borghesi sono spaventati e iniziano a condividere un timore con la nobiltà: la fine del diritto di proprietà. I borghesi che hanno scritto i Cahiers senza tenere conto della rabbia contadina ora devono fare i conti con quella rabbia perché, grazie alla piega presa dagli eventi, i diseredati vedono per la prima volta la possibilità di scardinare l’impalcatura dell’ingiustizia sociale e il loro nemico non è soltanto la nobiltà o il re, ma anche la grande borghesia. L’Assemblea nazionale deve decidere se reprimere l’insurrezione contadina affiancando le truppe del re o attuare una linea morbida di concessioni; la scelta cade sulla seconda ipotesi e la notte tra il 4 e il 5 agosto la nobiltà liberale considera decaduti i propri diritti feudali. In un clima di grande filantropia il giovane marchese di Noailles e il potente duca di Aiguillon ottengono l’uguaglianza fiscale, l’abolizione delle servitù personali e il riscatto dei diritti feudali al 3,3%; come nota Furet <<il tasso di interesse molto basso dà una chiara dimostrazione che il signore di Aiguillon ha avuto molta cura nel valutare al massimo il capitale che deve essere riscattato. Si tratta di riconvertire il vecchio diritto signorile in buon denaro borghese>>. Anche i borghesi guadagnano perché ora non vi è più distinzione tra terra nobile e terra plebea. Comunque, al di là di questi freddi ragionamenti, è entusiasmante pensare ai nobili che, dalla tribuna dell’Assemblea, fanno a gara nel rinunciare ai loro millenari diritti di sangue: il feudalesimo è morto e, non c’è che dire, è una gran bella notizia! Lo spirito nazionale si viene cementando e, alle tre del mattino, per legare ulteriormente il re alla nazione, l’Assemblea proclama Luigi “restauratore delle libertà francesi”; è incredibile quanti significati possa assumere e abbia assunto nel corso dei tempi, compreso il nostro, la parola libertà. Il giorno 11 agosto l’Assemblea partorisce il testo definitivo sull’abolizione del regime feudale che sancisce: abolizione di ogni servitù personale, soppressione senza risarcimento della decima ecclesiastica, riscattabilità dei canoni signorili e delle cariche di giudice; in sostanza si sono mantenute le antiche proprietà integrandole nel nuovo corso storico e nel nuovo diritto. Il 20 agosto viene votata la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” che deve costituire il preambolo della nuova Costituzione; il testo consacra i valori dell’ordine nuovo, libertà, uguaglianza e sovranità nazionale. Questi sono i valori della borghesia, ma il re rifiuta di approvare tanto i decreti del 4-11 agosto quanto la Dichiarazione; il problema torna ad essere quello dei primi di luglio quando due poteri, il re e l’Assemblea, si fronteggiavano. Ha il re diritto di veto? questo è il punto cruciale. I rivoluzionari più moderati, coloro che già si preoccupano per la piega presa dagli eventi da loro stessi mssi in moto, vorrebbero concederglielo e così stabilizzare la rivoluzione: la fine di agosto registra quindi la prima spaccatura del fronte rivoluzionario; Necker e i “monarchici” vorrebbero un senato all’inglese di tipo ereditario oltre, al veto reale, per affiancare la grande borghesia alla nobiltà, ma l’Assemblea è di opposto parere e al massimo accetta un veto sospensivo da patteggiare con l’approvazione dei decreti del 4 agosto da parte del re. Il re temporeggia e si ritrova nella situazione di luglio, mentre la rivolta a Parigi continua; egli non sa cosa fare, sa soltanto cosa non vuole e cioè la fine della società nobiliare. La fuga dei nobili sommata alla crisi economica fa aumentare la disoccupazione e terrorizza i borghesi che vivono di rendita; i capi rivoluzionari intanto infiammano le masse con discorsi velenosi contro l’antico regime e la corte in genere. A fine settembre giunge a Parigi il reggimento delle Fiandre per ordine preciso di Luigi XVI: l’avvenimento unisce nello scontento Guardia nazionale e partito patriota i quali vogliono che il re licenzi i temuti dragoni. Mirabeau, che ha compreso il carattere del re, trama con gli Orléans per cambiare la dinastia al potere e riconciliare popolo e monarchia francesi.

   Il 1° ottobre si consuma la tragedia: nella bellissima sala dell’Opéra di Versailles si tiene un grande banchetto offerto dalla guardia reale in onore del reggimento di Fiandra; alla fine del banchetto, dopo molto vino bevuto in onore dei reali, Luigi e Maria Antonietta vengono accompagnati trionfalmente nelle loro stanze, i soldati calpestano le coccarde tricolori e gridano <<Vive la reine!>>. L’indomani le gazzette patriottiche accusano la regina e la corte di aver pagato gli assassini del popolo e il 5 ottobre scoppia un tumulto a Parigi, ben organizzato e con un preciso obiettivo: riportare il re e la regina nella capitale, ma non usando gli uomini, bensì le donne. Choderlos de Laclos, che conduce la campagna  per il duca d’Orléans dal Palais Royal, ha previsto con fine psicologia che Luigi non darà l’ordine di sparare su una folla di donne disperate; per due giorni si ritarda l’approvvigionamento di pane per la capitale e, quando la fame diviene intollerabile, si scatena l’ira popolare; ora sarà sufficiente controllarla e indirizzarla verso l’obiettivo voluto. Così all’alba del 5 una moltitudine urlante di donne e uomini travestiti da donne si mette in marcia per Versailles con l’unico scopo apparente di chiedere pane: pane e politica si mescolano per l’ennesima volta. Un’ora dopo gli avvenimenti, come è suo sfortunato costume, giunge La Fayette sul bianco destriero: vorrebbe fermare la marea ma i suoi soldati glielo impediscono, così non può fare altro che scortare le “donne” dando agli avvenimenti una parvenza di legalità. Il re intanto, come ogni giorno, è a caccia nelle foreste di Meudon e la regina, come fa spesso, è al Trianon. Quando un paggio le reca il biglietto scritto dal ministro Saint-Priest dove si annuncia la plebaglia marciante su Versailles, ritorna velocemente al grande palazzo senza intuire che non rivedrà mai più il suo Trianon e il diletto villaggio artificiale di Hameau. Anche il re torna ed è infastidito perché è stato interrotto nella sua piacevole occupazione: la caccia; un ministro propone che il re si metta a capo di un drappello di dragoni e massacri la canaglia, ma l’eterno “cunctator” Luigi non è uomo di questa pasta, egli non vuole affrontare gli eventi. Saranno gli eventi a travolgerlo! se il re, come gli dice Saint-Priest, verrà portato a Parigi, la corona sarà perduta. Necker invece gli consiglia di assecondare la folla; come al solito Luigi sembra un pendolo oscillante e senza volontà. I servi aspettano rigidi per ore accanto agli sportelli delle berline sotto un violento temporale ma il re non decide il da farsi, continua a discutere e a consultarsi mentre dall’Avenue de Paris giunge il boato della folla. Dopo sei ore di marcia, le amazzoni delle Halles sono fradicie di pioggia, infangate, affamate e con lo stomaco gonfio di acquavite bevuta nelle varie osterie sulla strada: si recano subito all’Assemblea nazionale, dove qualcuno le aspettava sin dal mattino e ora le accoglie con ipocrita sorpresa dal momento che i battistrada del duca d’Orléans avevano fatto un ottimo lavoro. Una delegazione di sei donne viene scortata a palazzo reale dal presidente dell’Assemblea e da alcuni deputati, tra i quali si trova un medico dall’aspetto gioviale e dal nome simbolico: Guillotin. Così il  5 ottobre la ghigliottina ha fatto ufficialmente la sua prima visita a corte. Il re riceve la delegazione con molto garbo e una ragazzina avvezza ad offrire fiori al Palais Royal, sviene per l’emozione; ma giù nel cortile la folla, aizzata da agenti segreti, accoglie a male parole la sua stessa delegazione accusandola di corruzione. La massa urlante reclama il re e la regina, vuole riportarli a Parigi e non andrà via sino a quando non otterrà quanto pretende. Molte donne, soprattutto quelle del mestiere, provvedono a distrarre gli uomini del reggimento di Fiandra e attorno ai cancelli, nell’oscurità, si aggirano figure sospette. A mezzanotte, buon ultimo arriva La Fayette e malgrado metta la sua vita a disposizione della famiglia reale, nessuno lo ringrazia e tanto meno Maria Antonietta che ha sempre disprezzato quell’uomo che lei considera un ipocrita. Alle cinque del mattino parte una fucilata che fa accorrere migliaia di rivoltosi verso un punto prestabilito, parte l’attacco e ha una direzione chiarissima: le camere della regina! Il duca d’Orléans e il conte di Provenza, fratello del re, non hanno dormito a palazzo e certo ne sapranno la ragione. Ora è da spiegare come migliaia di donne che non avevano messo piede a Versailles prima di allora, sapessero con precisione come districarsi nel labirintico palazzo, fra dozzine di scale e centinania di camere, sino ad arrivare in una stanza precisa? Donne e uomini travestiti salgono le scale, uccidono due guardie del corpo e ne inforcano le teste sulle picche come macabro trofeo; arrivano sino alla regina, che allarmata si è chiusa in una stanza dove resterà in preda al panico per cinque minuti, sino a quando non riesce a rifugiarsi nella stanza del re. Finalmente si ridesta anche La Fayette, il Général Morphée, e con suppliche e lamenti riesce a cacciare le assatanate dalle stanze regali; la vita della regina è salva, il piano è riuscito a metà: ora, dopo lo scampato pericolo, arrivano rasati e incipriati, il duca d’Orléans e il conte di Provenza e, cosa assai strana, la folla si apre rispettosamente per concedergli il passaggio. <<Le roi à Paris! Le roi à Paris!>> gridano tutti; il re guarda La Fayette indeciso sul da farsi, ma quando egli compare tra la folla, viene applaudito. Strano destino quello di Luigi, ogni volta che perde un pò del suo potere viene acclamato. L’immenso corteo di più di trentamila persone si mette in marcia verso la capitale. Il popolo scorta “il panettiere, la panettiera e il garzone fornaio” a Parigi. A notte inoltrata la famiglia reale arriva alle Tuileries: Luigi è sempre meno re e sempre più prigioniero nel suo palazzo; una nuova ondata di nobili abbandona la Francia. La crisi economica incalza e il re non riesce ad attuare una politica di conciliazione nazionale, oscilla tra rassegnazione e sentimento di rivincita: nell’autunno del 1790 Necker e i suoi ministri si dimettono perché non godono più della fiducia del re. Il nuovo governo è formato da uomini di La Fayette e quindi inviso al popolo e poco stimato dalla famiglia reale: si può ben dire che in Francia ci sia, in questo momento, un clamoroso vuoto di potere. Il centro della politica attiva è la sala del maneggio dove si riuniscono i deputati: è lì che vengono affrontati e dibattuti, in sedute pubbliche, i grandi problemi del regno. Destra e sinistra stanno ad indicare le tendenze dell’Assemblea: Mirabeau-Tonneau, fratello del celebre Mirabeau, è il capo della destra e rappresenta coloro che non vogliono i decreti del 4 agosto, i difensori della società classista e i monarchici in genere; a sinistra il partito patriottico rappresenta la maggioranza della borghesia e i suoi capi sono nobili dal grosso nome come Talleyrand-Périgord o i La Rochefoucauld. La struttura burocratica ed amministrativa dei futuri regimi che via via si susseguiranno, è formata dagli uomini che oggi lavorano nelle commissioni, uomini capaci e laboriosi. L’idolo del momento è Mirabeau, convinto assertore della monarchia costituzionale, ultimo legame tra il re e il partito patriottico: attorno a lui una fama terribile di corrotto, corruttore, grande oratore, uomo dagli appetiti insaziabili e dalle innumerevoli amanti. Col suo talento oratorio e col fascino della sua figura, ha guidato tutta la prima fase rivoluzionaria; sin dal maggio 1790 è passato al servizio della corte, dopo un patto segreto con Maria Antonietta scaturito da un segreto incontro notturno che ricorda la fiaba della bella e la bestia. Mirabeau comprende che l’unico uomo della corte è la regina e cerca di trasformare in denaro sonante la sua intima convinzione monarchica. la furia potente di Mirabeau si interrompe dopo una notte di orgia dell’aprile 1791: la sua morte anticipa lugubramente la morte della monarchia. La Fayette, a sua volta, malgrado l’immenso prestigio di cui gode, non è un vero e proprio uomo di potere; si distingue per essere l’uomo giusto nel momento sbagliato, è odiato da destra e sinistra per motivi opposti: i primi lo sospettano di simpatie filorivoluzionarie e i secondi di essere troppo tenero con la controrivoluzione. Vi è poi un triumvirato che gode della fiducia dei patrioti: il nobile militare Alexandre de Lameth, l’anziano parlamentare Duport e soprattutto il deputato di Grenoble Barnave. La vita culturale e salottiera di questo periodo è assai brillante; nel dicembre 1789 in rue Saint-Honoré, nell’antico convento dei giacobini, si insedia la Società degli Amici della costituzione dove si riuniscono i borghesi parigini per discutere dei grandi temi proposti all’Assemblea. Nel giro di due anni il club dei Giacobini diviene potentissimo e isuoi capi saranno i capi della rivoluzione; i poveri sono esclusi da questo club grazie alla forte quota da pagare per l’iscrizione. Ormai a Parigi, vero centro vitale della rivoluzione, esistono tre poteri: la municipalità, la Guardia Nazionale e le sezioni. Queste ultime, in numero di 48, sono espressione della sovranità popolare.

   Il vuoto di potere creato dal crollo dell’antico regime viene riempito anche dall’esaltazione dell’unità nazionale contrapposta all’antico privilegio. Per il;primo anniversario del 14 luglio l’Assemblea organizza al Campo di Marte la festa della Federazione che deve celebrare l’unione tra la capitale e la provincia e la fede comune nella rivoluzione. Alla presenza della famiglia reale il vescovo di Autun, Talleyrand, celebra una messa solenne mentre la Fayette giura fedeltà alla nazione, alla legge e al re. In questo momento che vede l’apice della fortuna di La Fayette, sembra che il re e la rivoluzione borghese siano una sola cosa, pare proprio che la riconciliazione tra re e francesi sia avvenuta. Il 4 agosto viene dichiarato decaduto per sempre il sistema feudale e viene garantita l’uguaglianza delle possibilità mettendo fine al privilegio nobiliare; il 16 giugno 1790 verranno aboliti i titoli di nobiltà: il regno di Francia si avvia a diventare un regno di “cittadini”, il merito prende il posto della nascita: la storia della Francia borghese ha inizio. L’Assemblea Costituente deve prendere precauzioni borghesi per salvaguardare il recente potere conquistato con la rivoluzione dell’89; gli uomini della Costituente sanno che in politica l’azione popolare è portata all’eccesso e non alla moderazione: l’Assemblea respinge l’uguaglianza dei diritti politici e il suffragio universale, temendo la demagogia nobiliare che potrebbe sfruttare i voti delle masse. Attraverso il criterio fiscale si dividono i cittadini in attivi e passivi; un terzo dell’elettorato maschile resta così escluso e si tratta dei francesi più miserabili. Restano circa quattro milioni di cittadini attivi, cifra del tutto rispettabile se la si paragona ai duecentomila della Francia del 1830. Questa massa elettorale partecipa alle Primarie nominando gli elettori di secondo grado che a loro volta sceglieranno i deputati. Abbiamo quindi elettori ed eleggibili sulla base del criterio fiscale: gli uomini nuovi sostituiscono quelli dell’antica Francia. Anche il potere giudiziario viene completamente riorganizzato e le corti di giustizia sono ormai piene di borghesi che credono nei valori dell’uguaglianza. Il merito inizia a farsi strada anche nell’esercito, feudo incontrastato, sino al 4 agosto, della nobiltà; la Guardia nazionale è la vera e propria armata della borghesia: i giovani non nobili nati tra il 1750 e il 1770 hanno soltanto l’imbarazzo della scelta, possono entrare nell’esercito, nella giustizia o gettarsi in politica. La stessa monarchia costituzionale è ormai tale per volontà dell’Assemblea, Luigi è re dei francesi per grazia di Dio e per legge costituzionale dello stato e deve giurare fedeltà alla nazione. I due poteri, quello dell’Assemble e quello del re, sono diseguali in quanto il secondo ormai detiene un timido potere di veto provvisorio scarsamente applicabile alle risoluzioni della Costituente. Il controllo diretto dell’esecutivo vale soltanto per gli ambasciatori e per i grandi capi militari mentre è l’Assemblea a decidere della pace e della guerra dietro proposta del re. Il re non è più tale ma diviene soltanto il primo funzionario pubblico e come tale stipendiato dalla nazione; egli ha perso il potere di fatto che è passato nelle mani della borghesia. Fino a quando l’Assemble tollererà di dividere, sia pur nominalmente, il potere con un re che viene considerato, malgrado le enunciazioni di principio, una pericolosa testimonianza del vecchio mondo dei privilegiati? Che la borghesia ormai domini è testimoniato soprattutto dalla legge Le Chapelier dell’estate del 1791 la quale esclude il sindacalismo dalla vita sociale organizzando il lavoro secondo schemi ed ideologie tipicamente borghesi, in nome di una democrazia degli imprenditori fedele allo schema del liberalismo classico; è singolare che dai banchi della sinistra nessuno si alzi per contrastare questa legge. Nelle campagne i vecchi diritti rurali dei contadini iniziano a scontrarsi con le prime forme di capitalismo agrario organizzato; i borghesi si sono liberati dei nobili, ora devono liberarsi dai miserabili, tanto nelle città, quanto nelle campagne. Ormai è nata la Francia della libera impresa e la sua nascita ha ucciso la Francia del privilegio; per il momento i borghesi possono venire a patti, per comodità, con il popolo urbano e contadino in funzione antinobiliare ed antimonarchica, ma prima o poi si dovrà arrivare alla resa dei conti. I nobili nella seduta del 4 agosto possono scegliere una bella morte ma devono morire politicamente. Gli eventi si sono succeduti in modo troppo rapido e il trauma del 1789 non si può cancellare; occorre stabilizzazione e quindi un patto tra vecchio e nuovo, tra re e Assemblea: si tratta di un patto impossibile dal momento che il primo non ha mai rinunciato al suo sacrosanto potere assoluto per diritto divino e la seconda non ha pensato veramente, neppure per un momento, ad una effettiva collaborazione con il sovrano. Se sino a questo momento la rivoluzione si è sviluppata in presenza del re, ora si svilupperà in assenza di questo; a lui la scelta: o fuggire all’estero o morire sulla ghigliottina. Luigi non ha scelta diversa perché, aldilà dei fatti contingenti e delle diverse interpretazioni storiografiche, oggi è chiaro che egli non veniva tollerato da una Francia borghese e fondamentalmente determinata a tagliare tutti i ponti col passato; il re, tra tutti i ponti possibili, era il più ingombrante. Tutto ciò è ben testimoniato dalle decisioni dell’Assemblea in materia finanziaria: nazionalizzazione dei beni del clero e riorganizzazione religiosa che necessariamente ne deriva. L’alienazione dei beni del clero, proposta dal vescovo di Autun, Talleyrand, servirà a garantire l’emissione dell’assegnato, una sorta di buono del tesoro, col quale lo stato liquiderà il debito pubblico. L’interesse di partenza è del 5% ma la diffidenza del pubblico fa si che nel giro di pochi mesi scenda al 3% e nel 1790 sia trattato alla stregua di carta moneta; l’inflazione cresce e la miseria aumenta. L’assegnato che fallisce come rimedio finanziario è però lo strumento politico di un immenso trasferimento di proprietà: la terra della chiesa passa al Terzo stato grazie alla vendita all’incanto in piccoli lotti con larghe facilitazioni di pagamento: viene così consolidata, a spese dell’altro ordine privilegiato, l’alleanza tra borghesia e contadini. I veri problemi nascono però dalla sfera spirituale: cosa ne sarà della Chiesa e dei suoi rapporti con lo Stato? come reagirà il corpo dei fedeli cattolici? I legislatori dell’Assemblea, di chiara formazione gallicana e cesaro papista, stanno fornendo le prime truppe alla controrivoluzione e al re. Nel 1790 si decide la Costituzione civile del clero per la quale i preti saranno stipendiati dallo Stato e dovranno giurare fedeltà alla Costituzione; il cattolicesimo resta religione di Stato ma i preti vengono scelti dagli elettori dei comuni e dei dipartimenti. Pio VI lancia l’anatema, il clero francese si divide tra “refrattario” e “costituzionale”, i nobili emigrati possono di nuovo contare sulle mase cattoliche assalite dal timor di Dio. Luigi XVI assiste allo scisma religioso maturando sempre più l’idea della fuga; una parte dell’Assemblea vuole riaccostarsi alla corte e Duport, assieme a Lameth e Barnave, lotta contro i democratici come Danton e Marat che vogliono estremizzare la rivoluzione. Lo scisma e la questione religiosa accelerano gli eventi: il re dovrebbe allearsi con i moderati ma, spinto da cattivi consiglieri e consapevole di avere ancora in mano il potere sufficiente per bloccare il funzionamento politico del nuovo sistema, decide la politica del “peggio” ingiustamente attribuita da molti storici alla sola Maria Antonietta. La coscienza cattolica del re è profondamente scossa dagli ultimi avvenimenti; le proposte di fuga che gli emigrati di Torino gli rinnovano continuamente trovano risposta dopo la Pasqua del 1791, quando la folla impedisce al re di lasciare le Tuileries per recarsi, come faceva ogni anno, a Saint-Cloud. A questo punto, sentendosi prigioniero, Luigi vuole fuggire. In gran segreto, la notte del 20 giugno, con tutta la famiglia, abbandona le Tuileries su una pesante ed enorme berlina. La spedizione, preparata male, viene eseguita peggio: la carrozza parte tardi, avanza lentamente verso Metz, non giunge in tempo all’appuntamento col primo distaccamento di ussari che ha l’incarico di scortarla. La famiglia reale avrebbe dovuto usare due cabriolets per passare inosservata e raggiungere senza rumore il confine seguendo l’esempio del conte di Provenza, fratello del re, che fugge contemporaneamente; l’augusta famiglia vuole però viaggiare unita in una sola berlina e quindi occorre una enorme carrozza che possa contenere sei persone: il re, la regina, i due bambini, Madame Elisabetta, sorella del re e persino Madame de Tourzel che accudusce i reali rampolli. Inoltre in una seconda carrozza seguono due cameriere dal momento che è inconcepibile una regina che, sia pur per un giorno, sbrighi umili servizi; la famiglia reale si perderà nella notte di Varennes a causa dell’etichetta. Un quintale di bagagli nuovi fiammanti si accumula sulla berlina guidata da cinque persone di sangue nobile ma completamente ignari della strada da seguire per arrivare a Montmédy; quella che doveva essere una fuga misteriosa si trasforma in processione solenne. L’errore più clamoroso viene commesso da Fersen, amante della regina e unico uomo veramente fidato: egli vuole che la sua sovrana viaggi comoda e per la bisogna fa costruire una carrozza gigantesca, una sorta di nave da guerra su quattro ruote che abbia anche posto per il vasellame d’argento e il guardaroba, trainata da dodici cavalli e condotta da nobili dalle livree servili ma nuovissime. Ad ogni cambio di cavalli si perde almeno mezz’ora ritardando così di almeno cinque ore all’appuntamento; ma il capolavoro dell’imbecillità è la nomina del parrucchiere della regina, il divino Léonard, a ufficiale di collegamento fra le singole truppe che attendono per strada la reale carrozza. La verità è che il cerimoniale francese non conosceva precedenti che prevedessero la fuga del sovrano; esso aveva risposte pronte per i particolari più minuti del battesimo, del matrimonio e del funerale, ma non della fuga. Ultima osservazione: il re fugge insaccato in una livrea da lacchè; un simile sovrano perde prestigio ad ogni miglio percorso mentre se il sovrano avesse indossato i suoi abiti da guerra e il mantello dei capetingi nessuno avrebbe osato fermarlo una volta scoperto. Giunti a Chalons alle quattro del pomeriggio suscitano la curiosità della folla ammassata alla stazione di posta: perché mai questi signori non scendono a sgranchirsi le gambe? perché quei servi a cassetta hanno un’aria così sprezante e superba? Dopo mezz’ora si racconta che il re con la sua famiglia sta fuggendo verso il confine. A Pont-de-Somme-Vesle non ci sono più i dragoni che, dopo aver atteso inutilmente per una giornata, si sono ritirati in luoghi nascosti; anche a Sainte-Ménehould non vi è traccia degli ussari. Il mastro di posta Drouet, membro del club dei giacobini, si insospettisce e balza a cavallo precedendo i reali di Francia sulla strada di Varennes; quando la carrozza giunge sulla piazza di Varennes si vede circondata da una folla inferocita. La famiglia reale viene portata, ironia del destino nei momenti drammatici, in una locanda che si chiama Al gran Monarca dove li attende il sindaco, il bottegaio Sauce che li ospiterà per la notte in casa sua. Il gesto energico di Drouet ha mutato il corso della storia: in due piccole stanzette si accomodano i prigionieri; al mattino giungono gli inviati dell’Assemblea. Romeuf, aiutante di La Fayette, conosce i sovrani personalmente ed è stato da loro trattato benevolmente, vorrebbe farli fuggire ma il suo compagno Bayon, zelantissimo rivoluzionario gli è addosso; tocca a Romeuf, imbarazzatissimo, il triste incarico di consegnare alla regina il decreto dell’Assemblea Nazionale nel quale si ordina di trattenere l’augusta famiglia. In Francia “il n’y a plus de roi” dice Luigi con voce assonnata e per una volta ha ragione: prima egli era prigioniero di fatto ora lo è anche per decreto. Seimila persone urlanti e festanti riaccompagnano la pesante berlina sulla strada del ritorno; se Luigi avesse avuto il coraggio di attendere soltanto un poco si sarebbe salvato giacché gli ussari di Bouillé, quegli ussari tanto attesi, arrivano a Varennes venti minuti dopo la partenza del re per Parigi. La fuga del re ripropone in termini nuovi, al partito patriota, il problema del futuro della rivoluzione: la sinistra dell’Assemblea chiede una punizione esemplare, La Fayette, Baylli e i triumviri, preoccupati dell’intervento popolare, parlano di “rapimento” condannandosi, contro l’evidenza, nel proclamare l’innocenza di Luigi, vero re costituzionale. Per il momento vince La Fayette e il 17 luglio la Guardia Nazionale spara, al Campo di Marte, sulla folla che chiede la punizione del re: per la prima volta i poteri pubblici nati dalla rivoluzione, si ritorcono contro il popolo di Parigi. La scissione nell’Assemblea è evidente; i moderati abbandonano i giacobini e vanno ad insediarsi nel convento dei foglianti, seguiti dalla maggioranza dei deputati. Nessuno sa ancora che Robespierre, l’avvocato di Arras, sarà in grado di controllare la maggioranza delle società filiali di provincia. Nel settembre sembra che i foglianti e i moderati abbiano vinto; il 14 Luigi si reca all’Assemblea per prestare giuramento e per suggellare il nuovo accordo tra re e paese. Il 30 settembre la Costituente si scinde e proclama finita la rivoluzione; più che crederlo lo auspica.

J.V.

Continua.

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