RITRATTO GATTOPARDESCO

RITRATTO GATTOPARDESCO

Gioacchino Lanza, come il padre adottivo Tomasi di Lampedusa, è stato un alieno tra la nobiltà siciliana

Ci sono anche gattopardi che lavorano. Si sa che per gli aristocratici siciliani da sempre si pone il bivio cruciale tra i due grandi format esistenziali. C’è la strada classica (decadenza grandiosa, rimpianto, camicie stirate a Londra, ecc.), e poi c’è quella variante rarissima dei principi siciliani-imprenditori, magari nei vini e nei gelati. Gioacchino Lanza Tomasi, mancato mercoledì a Palermo a 89 anni, aveva scelto la variante due. Il principe (anzi per la precisione duca, di Palma, per delle strane ragioni araldiche) è stato un esempio di industriosità umana e culturale notevole.

Niente “Sicilia irredimibile”, anzi. Bastava andare a via Butera 28, nel palazzo che aveva rimesso in sesto, un vero compound di efficienze e attività: sopra, la moglie Nicoletta organizza B&B e corsi di cucina per americane e spese alla Vucciria “with the real Duchess of Palma”, sotto lui aveva riorganizzato la biblioteca del padre adottivo, il celebre Giuseppe Tomasi di Lampedusa che in questo palazzo aveva trascorso gli ultimi anni. Lo andai a intervistare, dieci anni fa, in quell’antro che era allora la Kalsa, non sciccoso e cool come oggi, tra le collezioni incommensurabili d’arte contemporanea, e restammo ore, ce n’erano di storie. A partire dalla sua adozione da parte di quel cugino. Un romanzo a sé.

Tomasi di Lampedusa prima di diventare (postumo) l’autore del Gattopardo, uno dei grandi bestseller del Novecento, era un uomo gentile, malinconico, imbolsito, impataccato, forse fluido, con la carnagione olivastra e una moglie torva, la baronessa lettone e psicanalista Alexandra Wolff Stomersee, detta Licy, una delle prime freudiane in Italia (poi presidente della Spi), che metteva sul lettino soprattutto il personale di palazzo, tra i sospettosi di questa nuova disciplina a Palermo. I due nella Sicilia degli anni 30/40/50 conducevano un’esistenza modestamente eccentrica, bizzarra e appartata, tra la presidenza della Croce rossa provinciale di lui, e la psicanalisi di lei. Cercavano, non avendo figli, di adottarne uno tra i parenti, come si usa tra i nobili. Il prescelto fu un lontano cugino, Alvaro Caravita di Sirignano, figlio secondogenito del celebre Pupetto, dandy caprese, e di Anna Grazioli ramo palazzo Grazioli. Ma questi parenti erano e sono ricchissimi, abituati benissimo, e il destino fu deciso da dei cioccolatini avariati. Ricevuti per un tè a Palermo, non proprio tra i lussi, i Sirignano ricevettero dai Lampedusa delle praline bianche di vecchiaia, inorridirono (forse perché abituati alle leccornie di Moriondo & Gariglio dietro casa a Roma), fecero marcia indietro, e se Gioacchino fu erede del Gattopardo, don Alvaro oggi è proprietario di palazzo Grazioli. C’è peraltro un’altra connessione tra berlusconismo e gattopardismo: lo scenografo Giorgio Pes lavorò per il film e poi arredò i palazzi del Cav., Grazioli compreso.

Ma tornando a noi: così toccò a Gioacchino ricevere quell’eredità, che si prospettava (ma non fu) soprattutto morale: col principe di Lampedusa non condivideva solo una certa estraneità con l’alta società siciliana oziosa e vacua, cui pure appartenevano entrambi, ma anche l’amore per le lettere. Si sa che faceva parte di quel gruppo di discepoli che prendeva lezione dal principe, a casa. Lampedusa istruiva infatti un gruppo di giovani sulla letteratura francese e inglese, con memorabili distinzioni tra scrittori “grassi” (Balzac) e “magri” (Stendhal). “I ‘grassi’ esprimono tutti gli aspetti e tutte le sfumature di quanto vanno dicendo, sottraggono al lettore la responsabilità di dedurre e sviluppare lui stesso a partire dalle loro parole, perché tutto risulta già dedotto e sviluppato in esse. I “magri” invece vanno letti addossandosi di buona voglia questa allettante responsabilità; il senso delle loro pagine succinte domanda segretamente di essere integrato dalla collaborazione del lettore; in loro il non detto è più succoso del detto e non è meno preciso, perché un’arte sapiente ed allusiva avvia infallibilmente ad esso il lettore perspicace”, scriveva l’altro suo discepolo, Francesco Orlando. Il principe, nonostante la corporatura, mi pare di ricordare che si collocasse tra i magri. O non prendesse partito, com’era nella sua indole bonaria e rassegnata.

Anche, in quel consesso molto maschile, drammi esistenziali e rivalità tra gli adepti, soprattutto tra Gioacchino e Orlando, l’intellettuale inquieto del gruppo, quello che poi diverrà un grande saggista e critico con impostazione freudiana sussunta dalla principessa di Lampedusa. Eppure a lui, tormentato scrittore in erba, che aveva pure il compito di battere a macchina il manoscritto del Gattopardo, fu preferito per l’adozione il nobile e disinvolto Gioacchino, che era già principe di suo (Lanza di Mazzarino). Ma non era solo per il sangue: ché poi il povero Orlando veniva da famiglia borghese ma degnissima, parente di Vittorio Emanuele Orlando. “Non era scattata la chimica”, come si direbbe in un reality, e poi Orlando aveva scritto un libro un po’ gay (“La doppia seduzione”, che uscirà poi solo l’anno della morte di Orlando, il 2010); sottoposto al principe, era stato giudicato letterariamente valido ma socialmente sconveniente, in una società palermitana poco inclusiva. Orlando ne soffrì molto. Dalla vicenda di questo gruppo di iniziati è stato ricavato anche un film, “Il manoscritto del principe”, di Roberto Andò, oltre ai libri di Orlando medesimo (“Ricordo di Lampedusa” e “Da distanze diverse”, pubblicati insieme da Bollati Boringhieri) ma non raccontano tutto, e quella vicenda, di quella Bloomsbury siciliana, andrebbe forse narrata da capo.

Insomma. Gioacchino diventa figlio. Di un mondo e di un modo di essere. E poi naturalmente “eredita” il romanzo, uno dei più grandi bestseller della storia italiana, uno dei colpacci della Feltrinelli degli anni Cinquanta (e chissà che introiti oggi con la cessione dei diritti a Netflix per il remake che noi gattopardisti temiamo)! “Quest’anno, quattro-cinquecentomila copie vendute, ma è un’annata fiacca” mi disse. Ma non è coi diritti del Gattopardo che Lanza Tomasi era riuscito a combattere la più classica delle decadenze siciliane (anche perché il contratto originario con Feltrinelli prevedeva un misero 4 per cento per gli eredi dell’autore): piuttosto con la musica, il teatro e l’Opera e un insieme di conoscenza, gusto, savoir faire e lingue messe finalmente “a terra” anche se con sforzo molto ben dissimulato – era pur sempre principe, anzi duca. Avran contato i viaggi, e la vicinanza col fallimento e il dramma della decadenza della famiglia sua, molto violenti. “Io fino agli anni Sessanta non avevo un soldo” mi raccontò. Poi “diventai amico di Suso Cecchi D’Amico e da lì partì la mia carriera”, disse. Va in America (il viaggio è fondamentale) e inizia a occuparsi di musica e d’Opera. E’ critico musicale del mitico “L’Ora” di Palermo. Da musicologo insegna alle università di Palermo e Salerno, è direttore artistico delle filarmoniche di Roma, poi Palermo; dell’Opera di Roma e del Teatro Massimo di Palermo; del San Carlo di Napoli. E’ direttore dell’Istituto italiano di cultura a New York. Ha scritto libri sulle ville di Palermo e sulla gattoparditudine. Ha curato il Meridiano paterno. Insomma, un gran lavoratore. Il suo libro più bello resta “I luoghi del Gattopardo”, un piccolo magnifico Sellerio illustrato, con tantissime foto di tutto, il bisnonno astronomo di Tomasi in copertina, che è la chiave del romanzo. Le tombe dei cani, Tomasi di Lampedusa in pigiama con lui, adorato Gioacchino, i cugini Piccolo pure in pigiama.

I cugini Piccolo (Lucio, Casimiro e Giovanna) erano un altro pezzo della storia di famiglia magnifico: come dei Sitwell siciliani, vivevano a Capo d’Orlando nella villa con appunto il cimiterino dei cani, e soprattutto riti esoterici e stramberie che deliziavano Giuseppe. Meno deliziato fu quando il cugino Lucio, 53enne, pubblicò a proprie spese le prime poesie, le spedì per posta a Eugenio Montale, il quale, leggendole, rimase così colpito da decidere di presentare Piccolo nel prestigioso convegno letterario di San Pellegrino Terme (1954). Piccolo si fa accompagnare dal cugino Lampedusa, estremamente curioso di assistere in prima persona agli esiti. A San Pellegrino, Lucio diventa il centro dell’attenzione dei letterati presenti. Tutti i giornalisti fanno a gara per intervistarlo. In pochi giorni, lo sconosciuto barone siciliano diventa famoso poeta, consacrato da Montale e dagli altri “marescialli di Francia”, così definiti, sarcasticamente, da Tomasi. Desta scalpore la presenza di quei due strambi siciliani, arrivati con un massiccio maggiordomo in marsina. Montale poi racconterà di aver dovuto pagare una multa perché l’affrancatura non era sufficiente. Giuseppe Tomasi, a cui non rimarranno che tre anni di vita, di fronte al successo di quel cugino più marginale di lui, decide a quel punto di mettersi a scrivere il romanzo che ha nel cuore da anni. A volte si sa che la letteratura nasce per le cause più bieche, gelosia compresa.

Oltre naturalmente al senso della perdita. Come in tante famiglie e in questa più di altre la “storia” era soprattutto quella di residenze amate e poi finite male. Le case rappresentavano un mondo perduto (del resto, dopo “cambiare tutto perché nulla cambi”, il tormentone più noto del romanzo è “una casa di cui si conoscono tutte le stanze non è degna di essere abitata”). Tomasi di Lampedusa non si riprese mai infatti dalla distruzione del suo palazzo di via Lampedusa da parte delle bombe incendiarie americane, e il Gattopardo è in fondo soprattutto un’elegia immobiliare, una Spoon River di feudi, palazzi, ville persi per sempre. Il figlio Lanza Tomasi invece aveva lavorato sul piano della realtà e si era ricomprato tutto, pezzo per pezzo, il palazzo di via Butera 28. Questo mi stupì soprattutto e me lo rese particolarmente ammirevole, come può capire chi abbia mai sperimentato beghe ereditarie-immobiliari. Butera 28 è indirizzo sacro ai gattopardisti, poiché, come spiegò Lanza, “era stato comprato dal bisnonno astronomo Giulio Tomasi di Lampedusa, ispiratore del principe del Gattopardo, col ricavato della vendita dell’isola di Lampedusa a re Ferdinando II di Borbone. Poi andò a un ramo cadetto dei Tomasi nell’Ottocento, poi a una famiglia di armatori, i De Pace”. Al povero Giuseppe era toccato un terzo dello stabile, dopo una causa tra parenti che era cominciata nell’Ottocento e finita nel 1945 (!). Giusto in tempo per andarci a vivere, in quel terzo, mentre la casa di famiglia, il palazzo Lampedusa di via Lampedusa, veniva raso al suolo (è stato ricostruito da poco, dopo soli 70 anni).

Via Butera, alla Marina, “era allora un quartiere fuori moda e desolato”, mi disse Lanza Tomasi. Oggi il palazzo è perfettamente restaurato, sul portone campeggia la P dei De Pace, e nell’androne labirintico nulla preannuncia gli splendori interni con le raccolte d’arte, le biblioteche, i saloni. I quadri sono quasi tutti di casa Lampedusa: “perché quando fu bombardato il palazzo di via Lampedusa furono predisposti dei carichi verso la villa del marchese de Spuches, ma vennero rubati e ad arrivare a destinazione uno soltanto, quello appunto coi quadri. E poi avevano quadri migliori della media palermitana, perché essendo una famiglia di santi (molti antenati Lampedusa erano beati o mistici), si imparentavano con famiglie romane che avevano collezioni migliori”. Già, i santi… i santi di casa eran tanti, c’è una santa Tomasi che avrebbe fermato il diavolo con dei sassi, i sassi sono ancora visibili in qualche convento della Sicilia.

Altri traumi immobiliari: il palazzo materno Filangieri di Cutò a Santa Margherita Belice perduto nel ‘43 e distrutto dal terremoto del 1968, dove lo scrittore trascorreva le estati da bambino-re solitario e taciturno (che verrà trasfigurato nella Donnafugata del romanzo). E quello Lanza di Mazzarino a Palermo, dove i genitori di Gioacchino davano i cocktail più importanti della città, fu venduto negli anni Trenta, e sparì un altro mondo, fatto di balli in maschera, tableaux vivants e frac fatti pulire a Londra che costava meno ricomprarli tutte le volte. I genitori di Lanza Tomasi erano una coppia di belli e dannati notissimi, poi risucchiati in quei buchi neri di fallimenti che solo in Sicilia. Alle loro feste andava spesso anche quel cugino di terzo grado un po’ impolverato, che se ne stava in disparte, che come loro non aveva mai lavorato un giorno in vita sua, e che però aveva un talento: e all’insaputa di tutti loro che sarebbero sprofondati nell’oblio e che lo consideravano un po’ uno sfessato, stava per consacrare per sempre alla letteratura quel “genere”, l’aristocrazia siciliana, inventando un mondo.

Un altro feudo sempre compianto era il castello di Montechiaro, vicino a Palma; di cui i Tomasi erano appunto duchi, seppur non più proprietari da secoli, e che pur sgarrupato impressionò molto la poco impressionabile moglie baltica, che trovava il feudalesimo siculo tutta apparenza e poca sostanza. Alexandra, presa benissimo, progettò allora una vacanza in tenda (l’avrebbero piantata nel cortile del castello), e il principe, che non ebbe mai coraggio di contrastarla apertamente, le fece recapitare un giorno allora una lettera del Comando dei Carabinieri di Palma che pur dicendosi “onorati di ricevere le Loro Eccellenze, sconsigliavano il viaggio, per motivi di sicurezza”, e naturalmente la finta missiva era opera del principe-scrittore.

In un gioco di specchi, proiezioni e adozioni, Lanza Tomasi era come è noto la figura a cui Lampedusa si ispirò in parte per il Tancredi del Gattopardo; non proprio bellone come Delon, però fascinoso coi suoi occhi azzurri sempre socchiusi, la parlata e l’accento soft e un’aria da ragazzo fino in fondo. “E’ sarcastico, è indolente, ha un’accesa curiosità per le cose intellettuali, è pieno di spirito, ha una grande cattiveria superficiale e una certa bontà fondamentale. Inoltre più di me, si vede da un miglio di distanza che è un ‘signore’. Insomma, mia moglie ed io ne siamo pazzi”, scrisse Lampedusa ai cugini Piccolo. E come per Tancredi si poteva dire che anche per “Giò” o “Gioietto”, come veniva chiamato affettuosamente dai genitori adottivi, “è impossibile ottenere la distinzione, la delicatezza, il fascino di un ragazzo come lui senza che i suoi maggiori abbiano dilapidato una mezza dozzina di patrimoni”. La mamma, Conchita Ramirez de Villa Urrutia, figlia di un diplomatico e poi premier spagnolo, campeggiava ritratta in un boudoir del palazzo, bellezza da top model. “Ci insegnò l’importanza delle lingue; in casa nostra si pranzava ogni giorno rigidamente in una lingua diversa”, raccontava lui. E anche questo ha aiutato. Anche la mamma di Giuseppe Tomasi di Lampedusa era una donna non comune e “l’aver vissuto rapporti un po’ esclusivi con le proprie madri era una delle due cose che ci accomunava”, mi confessò Lanza Tomasi. Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò, mamma di Lampedusa, era bella, ricca e molto inquieta e si diceva che fosse stata all’epoca amante di Ignazio Florio jr. E qui dai gattopardi passiamo ai leoni di Sicilia… “Anche se si tratta di un gossip che non ebbe mai conferme”. Di sicuro, cresciuta a Parigi, aveva un’educazione e un’apertura mentale superiori alla media per quei tempi, anche lei poco a suo agio nella “crosta” palermitana. “Molto italiani”, come direbbe Stanis La Rochelle, e leggendari, invece gli scazzi con la nuora. Le due non si sopportarono mai. Il donnone, Tomasi di Lampedusa lo conobbe nel 1925 a Londra dove suo zio Pietro Tomasi della Torretta era ambasciatore (antifascista, avversato da Mussolini, fu il primo presidente del Senato dell’Italia liberata e l’ultimo del Regno). La moglie dello zio, Alice Barbi, cantante lirica, aveva questa figlia già divorziata, eccentrica e cosmopolita (aveva fatto l’analisi a Berlino e Vienna) e legata pure lei a un mondo letterario di castelli e nevrosi gentilizie. Insomma si piacquero. In vacanza andavano sul Baltico, nel castello di Stomersee della famiglia di lei, poi confiscato dai sovietici (altro dramma immobiliare). Lei cominciò a passarvi sempre più tempo, anche per sfuggire alla mamma di Lampedusa. Fu soprattutto un matrimonio epistolare. Le poche volte che era a Palermo “Giuseppe e la principessa avevano vite separate”. Lui si alzava presto, andava a scrivere in bar e pasticcerie (da Mazzara o da Caflisch), e rincasava solo a sera; mentre lei si alzava alle tre di pomeriggio ed espletate le sedute tentava difficili fusion tra cucina baltica e mediterranea: “andava pazza per una sorta di aringa marinata con la panna acida”, raccontava Gioacchino. “Ma a Palermo naturalmente non si trovavano aringhe fresche, quindi prendeva quelle affumicate, le sciacquava a lungo, sostituendo poi la panna acida con la ricotta siciliana. Il risultato era disgustoso e probabilmente la causa principale delle frequenti dissenterie della principessa”.

(MICHELE MASNERI, IL FOGLIO, 13 MAGGIO 2023)

Giuseppe Tomasi di Lampedusa nasce a Palermo il 23 dicembre 1896. Una Palermo dove si incontravano i Florio, i Bordonaro, gli imprenditori inglesi del marsala Whitaker, gli ultimi baroni che avevano acquistato i feudi ecclesiastici dopo la secolarizzzazione del 1866 e realizzavano l’espansione edilizia lungo l’asse della via Libertà. La Palermo dei Lanza di Trabia, degli Alliata di Villafranca, dei Ventimiglia di Belmonte, tutti nobili proprietari di meravigliosi palazzi simili ai castelli della bella addormentata, un mondo incantato dal quale Giuseppe Tomasi non si sarebbe più staccato, un mondo condannato ad essere superato dalla volgarità dei tempi nuovi.

Consegue la maturità classica nel 1914 e l’anno dopo viene chiamato alle armi. Nel settembre 1917 viene inviato sull’altopiano di Asiago. Due mesi dopo viene fatto prigioniero. Nel 1918 evade, dopo un tentativo fallito, dal campo di prigionia Szombathely in Ungheria e nel novembre ritorna a Palermo.

Iscritto alla facoltà di legge prima a Palermo, poi a Genova, darà soltanto l’esame di diritto costituzionale. Tra il 1920 e il 30 viaggia per mezza Europa e nel 1932 si sposa con Licy Wolff Stomersee a Riga, in una chiesa ortodossa. La coppia si stabilisce a Palermo a palazzo Lampedusa. Nel 1934 muore suo padre e lui diviene principe di Lampedusa. Nel 1942, a causa dei bombardamenti su Palermo, si trasferisce nella villa dei suoi parenti Piccolo a Capo d’Orlando.

Nel 1957, tramite il libraio editore Flaccovio, “Il Gattopardo” viene inviato a Vittorini, direttore della collana I Gettoni della Einaudi. Una copia del romanzo viene consegnata ad Elena Croce. Il 23 luglio 1957 lo scrittore muore a causa di un carcinoma. La salma viene inumata a Palermo al cimitero dei Cappuccini. L’11 novembre 1958 il romanzo viene pubblicato da Feltrinelli a cura di Giorgio Bassani. Nel 1959 vince il Premio Strega.

Romanzo di rara bellezza, un autentico gioiello di cultura, saggezza, tristezza, consapevolezza, nostalgia di un mondo perduto. Come tutto ciò che è grande, sommo, alto, non viene compreso da molti e ancora oggi viene citato a sproposito da pessimi giornalisti e da pseudo politici da strapazzo.

“il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. […] il sonno è ciò che i Siciliani vogliono… da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento […] ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio… questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; […] questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; […] questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo…”

Non è un semplice romanzo storico ma casomai antistorico dove non si respira l’ottimismo di una concezione storicista e teleologica ma, al contrario, spicca la dolorosa consapevolezza che la storia degli uomini non procede verso il compimento delle magnifiche sorti e progressive. Si dice in modo chiaro e netto che il diritto alla felicità è una solenne sciocchezza. L’esistenza è durissima e la natura umana e gli uomini sono gettati in un mondo di inaudita violenza. Soltanto le arti e la conoscenza possono mitigare il dolore ma l’esito è comunque terribile: più comprendi e più resti isolato. L’influenza di Stendhal è molto forte, la delusione esistenziale e la consapevolezza del fallimento e dello scacco permeano tutto il romanzo.

In questa visione il Risorgimento diventa una rumorosa e romantica commedia e la Sicilia, resta una categoria astratta, immutabile metafisica. Il fluire del tempo, la decadenza e la morte (Marcel Proust e Thomas Mann) vengono esemplificati nella morte di una classe, quella nobiliare dei Gattopardi che viene sostituita dalla scaltra borghesia senza scrupoli dei Sedara, ma che permea di sé tutta l’opera: la descrizione del ballo, la morte di don Fabrizio, la polvere del tempo che si accumula sulle sue tre figlie e sui loro beni.

Un romanzo sicuramente decadente e struggente dove il vero protagonista è la nostalgia. Non mi stupisce che Vittorini non lo abbia compreso. Ancora oggi non viene compreso da quanti, assecondando logori luoghi comuni, lo interpretano esclusivamente in chiave politica.

Non è un caso che un grande intellettuale fin de race come Luchino Visconti ne abbia afferrato lo spirito traducendolo, caso raro di grande film tratto da grande libro, in un film sontuoso e affascinante.

Scandito dalla musica di Nino Rota il lavoro di Visconti offre quadri e dialoghi di rara suggestione. Don Fabrizio, il principe Salina, è un Bart Lancaster strepitoso affiancato dal nipote Tancredi (un giovanissimo e stupendo Alain Delon), da Angelica, di nome e di fatto (meravigliosa Claudia Cardinale) e da attori di consumata esperienza e bravura quali Paolo Stoppa (Calogero Sedara), Rina Morelli e Serge Reggiani.

Alcune citazioni da Tomasi di Lampedusa:

Io penso spesso alla morte. Vedi, l’idea non mi spaventa certo. Voi giovani queste cose non le potete capire, perché per voi la morte non esiste, è qualcosa ad uso degli altri.”[… ] In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.”

“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto.”

Ho letto il romanzo la prima volta a 18 anni e ne sono rimasto affascinato al punto che esso ha permeato la mia vita nel bene e nel male. Ogni tanto lo rileggo e ne cavo fuori insegnamenti e riflessioni. Il Principe Salina, inconsapevolmente, è stato il mio modello (alla sua aristocrazia per nascita che mi interessa ben poco, ho tentato di sostituire l’unica forma di aristocrazia che mi convince, quella culturale ed educativa) e sino a quando mi sono attenuto ai suoi insegnamenti stoici e sensati ho vissuto con dignità, onore e, perché no, momenti di felicità. Posso essere accusato di non aver fiducia nelle umane sorti e progressive ma questo non mi ha impedito di aiutare chiunque abbia incontrato nella mia vita. Anche io ho pensato per lunghi anni di poter migliorare il mondo aiutando gli altri e l’ho fatto insegnando e col mestiere di professore e preside. Il resto è cronaca. Malgrado ciò che mi è accaduto continuo a pensare che l’insegnamento, la scuola seria e per tutti siano l’unica forma di crescita per un popolo. La cultura non elimina la sofferenza esistenziale ma ci consente di soffrire ad un livello più alto e di provare solidarietà leopardiana per il dolore altrui.

“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.”

J.V.

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