Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare. Capitolo 4

Capitolo quarto

L’annientamento

Tra i morti e noi che restiamo c’è un abisso e non esiste un talento capace di penetrarlo

(Elie Wiesel)

4.1. L’antisemitismo nazista in opera

La mitologia sionista – ogni movimento nazionale ha la sua – ha ridotto venti secoli di storia ebraica ad un lungo e orrido tunnel, una sorta di buio medievale che si conclude soltanto con la Rinascita nazionale; non è così, e cercheremo di vedere perché, ma sicuramente ci sono stati molti momenti bui e uno talmente tetro da non temere confronti: la Shoah, che in ebraico significa sterminio e in particolare designa lo sterminio nazista. Preferiamo usare questa parola e non il termine più comune “olocausto” perché quest’ultimo definisce un sacrificio offerto a Dio che richiede la completa combustione della vittima; è palese che usare questo termine per raffigurare la morte di milioni d’ebrei nei campi di sterminio risulta in qualche modo offensivo.

Il ruolo di Hitler nello sterminio è centrale; non ci sono collaboratori innocenti ma Hitler è l’attore principale e comunque quello che dà il via alla “soluzione finale”. Ma se riuscì nel suo intento fu perché, come sostiene Goldhagen, aveva a disposizione milioni di antisemiti tedeschi pronti ad eseguire banalmente gli ordini da lui trasmessi. Il problema, semmai, è capire come hanno fatto i nazisti a commettere un crimine così gigantesco con pochi mezzi umani e materiali: in un solo campo di sterminio, 92 tedeschi sono riusciti a uccidere un milione e mezzo di ebrei.

Da politico smaliziato quale era, Hitler capì subito di non dover correre con i tempi d’attuazione del suo progetto, in quanto la Germania, essendo uscita sconfitta dalla guerra, aveva gli occhi delle potenze vincitrici su di sé. L’eliminazione degli ebrei in Germania fu attuata in modo graduale. Intanto occorreva definire l’ebreo, per poterlo poi isolare e perseguitare e questa, come abbiamo visto, non era una cosa semplice. Già nel 1890 uno dei sedici deputati antisemiti del Reichstag, Helmut von Gerlach, spiegava, nelle sue memorie, che il suo gruppo si dimostrò incapace di proporre una legislazione antisemita perché non riusciva a definire giuridicamente il concetto di ebreo. I nazisti, col decreto del 7 aprile 1933, stabilivano comunque il licenziamento dei funzionari di “ascendenza non ariana”. L’11 aprile un regolamento definiva tale ascendenza come quella di tutte le persone che contavano uno o più ebrei tra i loro genitori e i loro nonni; per essere considerato ebreo bastava appartenere alla religione giudaica. La popolazione veniva divisa in due parti: quella degli ariani comprendeva tutte le persone senza ascendenza ebraica da almeno due generazioni; quella dei non ariani comprendeva tutti coloro, ebrei o cristiani, di cui almeno uno dei genitori o dei nonni fosse riconosciuto ebreo. Come si può vedere, l’elemento chiave fu la religione e non quella del singolo individuo, ma quella dei suoi ascendenti. La stessa definizione di non ariano creava problemi, perché oltre agli ebrei puri (Volljuden), vale a dire quelli che avevano quattro nonni ebrei, esistevano gli ebrei per tre quarti, per metà e per un quarto. Nella sua forma definitiva la legge sulla cittadinanza del Reich, promulgata il 14 novembre 1933, distingueva tra i non-ariani queste categorie:

– coloro che hanno almeno tre nonni ebrei (vale a dire gli stessi ebrei puri del tutto o per tre quarti)

– coloro che hanno due nonni ebrei e appartengono alla Comunità religiosa giudaica alla data del 15 settembre 1935

– coloro che alla stessa data sono sposati a un ebreo o a un’ebrea o stanno contraendo un simile matrimonio

– coloro che sono nati da un matrimonio in cui uno dei due partner era o ebreo puro, o per tre quarti, se questo matrimonio aveva avuto luogo dopo l’entrata in vigore della Legge sulla protezione del sangue e dell’onore tedeschi del 15 settembre 1935

– coloro che sono figli illegittimi nati dopo il 31 luglio 1936 da relazioni extraconiugali di cui uno dei due partner è ebreo puro o per tre quarti.

Era definito come non ebreo ma incrociato con l’ebreo (Mischlinge), chiunque avesse due nonni ebrei ma al 15 settembre 1935 non appartenesse più alla fede giudaica o che, alla stessa data, non fosse sposato con un ebreo o un’ebrea (Mischlinge di primo grado) e ogni persona che aveva un solo ebreo tra i suoi nonni (Mischlinge di secondo grado). A partire da questo decreto, i Mischlinge poterono sfuggire al processo di distruzione, pur restando sottomessi ad altri decreti che riguardavano i non ariani. Quindi per dimostrare la propria arianità occorrevano ben sette certificati: quello di nascita o di battesimo personale, quelli dei due genitori e dei quattro nonni. Ma fino al 1875 la registrazione delle nascite era affidata soltanto alle Chiese e questo le portò a svolgere un ruolo fondamentale nel processo di distruzione.

Una volta definito chi fossero gli ebrei, il primo obiettivo consisteva nel loro isolamento dalla vita quotidiana e dalla direzione di organi statali. Il primo campo soggetto alla degiudaizzazione fu quello delle arti: dapprima si vietò ad artisti ebrei o discendenti di ebrei di suonare le opere di autori tedeschi, quali Mozart, Beethoven, Wagner, Strauss e Bach; poi si cominciò a licenziare gli ebrei puri. Infine, con l’istituzione della nuova Camera per la Cultura del Reich (Reichkulturkammer, RKK), gli artisti giudei furono definitivamente banditi dall’ambiente culturale tedesco e rinchiusi in un’associazione di artisti creata appositamente per loro, ma sempre isolata dalla vita pubblica. Lo stesso procedimento venne attuato anche in campo scolastico, specialmente in quello universitario; la percentuale dei possibili ebrei iscritti venne ridotta al 15% fino al progressivo azzeramento. Le reazioni dei colleghi di musicisti o professori ebrei furono insignificanti perché nessuno si mosse contro il processo di degiudaizzazione in quanto lo si riteneva giusto e necessario. La mossa successiva di Hitler e strategicamente più importante fu quella di escludere la popolazione ebraica dall’economia del paese.

Anche in campo legislativo furono apportate importanti modifiche in funzione antiebraica; infatti il 14 luglio del ‘33 venne approvata una legge in base alla quale si vietava l’immigrazione di ebrei in Germania, e si espellevano gli ebrei orientali residenti senza permesso di soggiorno; inoltre si vietava la presenza ebraica negli uffici pubblici per creare una burocrazia fedele al nuovo regime. Per quanto riguardava i medici ebrei, essi vennero estromessi da ospedali e cliniche gestite dall’organizzazione nazionale il 22 aprile dello stesso anno; molto pragmaticamente Hitler non impedì però loro di esercitare privatamente per non privare molti cittadini tedeschi dei loro medici e non creare malcontento. Per Hitler si trattava soltanto di un ritardo tattico; da lì a poco anche i medici sarebbero stati spazzati via.

Nel settembre ‘33 gli ebrei vennero colpiti anche nel settore agricolo e venne loro impedito di coltivare il “sacro suolo tedesco”. Intanto S.A. e S.S. arrestavano ebrei in tutta la Germania e li deportavano nei campi di concentramento o li rinchiudevano nei ghetti. Il 1935 fu l’anno della de-giudaizzazione dell’esercito; il 25 maggio fu approvata la legge con la quale si vietava ufficialmente il servizio militare agli ebrei, eccezion fatta per i Mischlinge.

Per quanto riguardava i matrimoni misti, già dal ‘33 Hans Kenl, ministro della Giustizia prussiano, aveva favorito la legge che li considerava come crimini contro l’onore della razza e un pericolo per essa. L’eventuale pena era o l’imprigionamento o l’internamento in un campo di concentramento o, addirittura, la castrazione. Inutile dire che la prima ipotesi per gli ebrei fu sempre scartata, al contrario che per i Tedeschi colpevoli dello stesso reato.

Dopo un periodo di relativa calma, all’inizio del 1935 si registrò un’altra ondata antisemita fortissima, voluta dai nazisti più radicali; la popolazione tedesca partecipava alla campagna e, attorno agli ebrei, si creò un vero e proprio clima di terrore con devastazioni di negozi, scritte, vessazioni di ogni genere. La polizia dava il proprio tacito assenso a tutte le violenze e alle intimidazioni; oramai si era creato un vero e proprio clima di caccia all’ebreo, per malmenarlo, terrorizzarlo, costringerlo a lasciare il Reich. Il 15 settembre 1935, alla fine del congresso del partito di Norimberga, si ebbe una seduta del Reichstag, la prima fuori Berlino dal 1543; Hitler, nell’occasione, fece notare l’esigenza di riformare l’esercito dopo la guerra del 1914-18, di conquistare Memel, città lituana, abitata in maggioranza da Tedeschi e di difendere una volta per tutte il Volk. Si stava determinando il quadro generale che avrebbe portato alla ormai prossima guerra mondiale; mancava però il punto più importante: la difesa della razza ariana da quelle minori, specie quella ebraica. Una proposta fu avanzata dal braccio destro di Hitler, Göring. Egli voleva confinare tutti gli ebrei, alla stregua di stranieri, togliendo loro tutti i diritti civili e la cittadinanza. Tali furono le già citate leggi di Norimberga alle quali seguirono violenti movimenti antisemiti. Ormai tutto era proibito agli ebrei, persino camminare nelle strade dove erano affissi cartelli intimidatori nei loro confronti. Per le vie era ormai abituale assistere a pestaggi di non-ariani.

Nonostante le continue minacce e violenze, la popolazione ebraica che emigrò in altre nazioni fu una percentuale modesta, in quanto i più ritenevano che fosse solo questione di tempo e che presto tutto si sarebbe aggiustato. Gli ebrei erano abituati alle persecuzioni e avevano un’atavica capacità di sopportazione; questa volta però, anche i rabbini più intelligenti non si resero conto che i nazisti rappresentavano una specie nuova di antisemitismo.

Nel 1936-37, il regime nazista adottò due metodi diversi ma complementari per emarginare i gruppi considerati pericolosi per la purezza della razza ariana: la segregazione e l’espulsione da un lato, e la sterilizzazione dall’altro. Il primo metodo fu utilizzato nelle varie forme contro ebrei, zingari e omosessuali; il secondo, invece, venne applicato contro portatori di malattie ereditarie fisiche e mentali.

Hitler si convinse di avere mano libera contro gli ebrei a causa del comportamento sciagurato delle altre nazioni e soprattutto di Francia e Inghilterra, le vincitrici della Prima guerra mondiale; uscita dalla Società delle nazioni la Germania nazista optò per il progressivo mancato rispetto delle clausole dei trattati di pace. Nel marzo 1935, con l’annuncio della coscrizione obbligatoria, impedita alla Germania dagli accordi di Versailles, si attuò la prima tappa di questo processo.

Come spiegare il fallimento della politica europea? Le sue possibilità di successo, se anche si ammette una maggiore disponibilità di Francia e Gran Bretagna, non vanno sopravvalutate: l’Urss restava un’incognita, se non una minaccia, per i paesi capitalistici occidentali, e gli accordi franco-sovietici avevano non a caso sorvolato sul ruolo che il paese dei soviet avrebbe potuto svolgere in un’Europa pacificata. Tuttavia la politica di appeasement, vale a dire della tolleranza se non proprio dell’accordo a tutti i costi con Hitler come mezzo per conservare la pace, non avrebbe potuto essere più disastrosa. Quella scelta riconosceva la legittimità di una revisione degli accordi di pace, e da questo punto di vista essa era semmai sin troppo tardiva, ma accettava come interlocutore affidabile un governo come quello nazista, consentendo così a Hitler di aumentare la pressione sugli ebrei in Germania e, di fatto, di rafforzare sempre più la propria posizione interna. Senza la politica di appeasement, il dittatore non avrebbe potuto rafforzarsi sino al punto di scatenare il secondo conflitto mondiale: e senza guerra non ci sarebbe stata la distruzione degli ebrei d’Europa.

La politica revisionista sugli accordi di Versailles partiva in sostanza dal presupposto che la mancata resistenza e le concessioni a Hitler ne avrebbero fermato l’aggressività: errore grossolano da parte delle potenze occidentali, perché Hitler preparava la guerra già dalla fine del 1936. Nella guerra il Führer vedeva non solo uno strumento della politica, ma una scelta ideologica, un vero e proprio fine. In altre parole, fu la mancata comprensione della natura del nazismo, unita al pregiudizio antisovietico, a impedire che venisse presa in seria considerazione la possibilità di contrastarlo con efficacia.

L’intreccio tra le vicende spagnole e austriache mostrò come l’iniziativa fosse passata completamente nelle mani di Hitler. Gli storici concordano ormai largamente sulle origini “interne” del feroce conflitto che divise per tre anni gli Spagnoli e si concluse con la vittoria del fronte nazionalista guidato dal generale Franco. Ma l’internazionalizzazione della guerra civile spagnola ebbe notevole importanza per la storia dell’intero continente europeo: essa rese concreto il pericolo di un’ulteriore diffusione del fascismo e anticipò gli schieramenti che si sarebbero affrontati nel corso della seconda guerra mondiale. Questi schieramenti non si delinearono tuttavia immediatamente in modo chiaro: se infatti in occasione della guerra di Spagna maturò un riavvicinamento tra Germania e Italia, è pure vero che nella stessa occasione si profilò anche quello tra Germania e Gran Bretagna: il risultato fu l’isolamento francese.

L’ipocrisia inglese del “non intervento” nella guerra civile spagnola, sottoscritta, ma non rispettata, anche dai governi fascisti, mise fine alle speranze di una vittoria repubblicana nella guerra spagnola e confermò, oltre all’incrinatura dell’alleanza franco-britannica, la tattica delle concessioni nei confronti degli stati fascisti. Tutto ciò fece precipitare la situazione degli ebrei in Germania. E le cose peggiorarono con l’Anschluss: nel gennaio 1938 al cancelliere austriaco Schuschnigg venne imposto da Hitler in persona l’ingresso al ministero degli Interni del nazista austriaco Seyss Inquart; la fine dell’indipendenza austriaca era ormai solo questione di giorni. Lo stesso Seyss Inquart richiese l’intervento della Wehrmacht e il 13 marzo Hitler entrò a Vienna, accolto trionfalmente dalla popolazione, mentre nella sua casa di Berggasse l’anziano Sigmund Freud si preparava con riluttanza all’esilio londinese.

Il governo conservatore inglese, presieduto da Neville Chamberlain, era condizionato dall’orientamento pacifista dell’opinione pubblica e dalla consapevolezza dell’impreparazione militare del paese per uno scontro immediato con la Germania.

Una possibile alternativa consisteva nel coinvolgere l’Unione Sovietica, lasciando cadere pregiudiziali anticomuniste. Stalin, che aveva interpretato l’accordo di Monaco come antisovietico, diede avvio ai negoziati con gli occidentali; la sua principale preoccupazione era ora di natura militare. Per questo richiese la disponibilità della Polonia ad accettare l’ingresso di truppe sovietiche nel suo territorio, per prepararsi al probabile attacco tedesco: ma i polacchi rifiutarono. Fu così che si arrivò al patto tra Hitler e Stalin. Le pesanti responsabilità dell’Urss per l’accordo con Hitler e delle democrazie occidentali per la politica di appeasement non devono far dimenticare che il protagonista assoluto dello scoppio della guerra fu il regime nazista. Si può aggiungere piuttosto che l’azzardo di Hitler rivelava i limiti di una concezione della politica di potenza ancora basata sul presupposto, sbagliato, della centralità dell’Europa e della marginalità degli Stati Uniti: una concezione ottocentesca, si potrebbe dire, secondo la quale il dominio del mondo passava per il dominio del vecchio continente.

Con il patto Molotov-Ribbentrop del 27 agosto i due provvisori alleati procedettero alla definizione delle rispettive zone d’influenza, delineate da un protocollo segreto: la Germania avrebbe avuto potere di intervento sulla Polonia a ovest della linea segnata dai fiumi Narew, Vistola e San; l’Unione Sovietica sulla Polonia orientale, sulla maggior parte degli stati baltici e sulla Bessarabia. Il 1° settembre 1939 la Wehrmacht varcava il confine polacco, e il 3 settembre Francia e Gran Bretagna dichiaravano guerra alla Germania; per gli ebrei iniziava il momento peggiore della loro storia.

4.2. La soluzione finale

Le vicende del conflitto sono troppo note perché si debbano rievocare in questa sede; ciò che interessa nell’economia del presente lavoro è che l’area in cui la dominazione tedesca presentava il suo volto più brutale ed efferato era costituita dai territori balcanici e soprattutto da quelli polacchi e sovietici. Qui la guerra non era concepita solo come conquista violenta di territorio – così come era avvenuto nella campagna d’Occidente – ma anche come luogo di sperimentazione e di esercizio di un dominio totale, che prevedeva e associava la rapina economica, la disgregazione dell’uni-tà nazionale, gli spostamenti e le deportazioni di popolazione e l’elimina-zione fisica. Fu non a caso proprio in queste regioni che venne programmato ed eseguito lo sterminio delle “razze inferiori”: slavi, zingari, ebrei. Il terrificante “Nuovo Ordine” preannunciato da Hitler nelle pagine del Mein Kampf si andava realizzando. Tale “Nuovo ordine”, il cui presupposto ideologico è costituito dall’idea di una gerarchia delle razze e dei popoli, si basa, in sostanza, su uno sfruttamento brutale di tutti i territori direttamente o indirettamente controllati dalla Germania, secondo criteri organizzativi diversi e a livelli differenti di intensità. Un primo livello è quello dei popoli formalmente indipendenti ma considerati come satelliti della Germania, perché la loro economia capitalistica è organizzata, dai loro regimi asserviti a quello nazista, per rispondere alle necessità dell’economia tedesca. Si tratta dell’Italia (chiamata a fornire alla Germania sia quei beni industriali che essa non produce a sufficienza, sia alcuni prodotti agricoli), dell’Ungheria (fornitrice soprattutto di carbone, alluminio e farine), della Romania (fornitrice soprattutto di grano e petrolio), della Bulgaria (da cui i tedeschi prendono piombo, zinco e semi oleosi), della Slovacchia (fornitrice di carni, latticini e pellami) e, nelle intenzioni di Hitler per il dopoguerra, anche della Spagna e del Portogallo. Un secondo livello è quello dei popoli che, pur avendo un loro “governo fascista”, sono però sotto l’occupazione militare tedesca. Si tratta della Norvegia, della Croazia, dell’Olanda e della Francia, le cui condizioni sono miserrime perché la presenza dell’esercito tedesco significa il pagamento di tutte le spese dell’occupazione e l’influenza crescente di movimenti di estrema destra locale, di ispirazione nazista e di comportamenti criminali (nella Francia di Vichy, ad esempio, lo stesso presidente della Repubblica Pétain conserva un’autorità sempre più simbolica, mentre acquistano potere, come strumenti diretti dei tedeschi, dapprima il ministro degli Esteri Pierre Laval, e poi truci personaggi quali Marcel Deat, Joseph Darnand e Jacques Doriot, organizzatori di bande armate per il rastrellamento, la tortura e il massacro di quanti sono ritenuti pericolosi dai Tedeschi). Un terzo e infimo livello è infine quello dei cosiddetti “protettorati”, direttamente amministrati dai Tedeschi mediante propri governatori, senza alcuna autorità locale. Si tratta della Boemia-Moravia, della Serbia, del Wartegau (protettorato così chiamato dal fiume polacco Warta, che raggruppa la maggior parte dei territori polacchi), della Curlandia (che include anche Lituania, Livonia, Estonia e Russia Bianca) e dell’Ucraina. Tutti questi territori sono popolati da slavi, che, secondo l’ideologia hitleriana, costituiscono, insieme con ebrei e negri, una razza inferiore e subumana, di cui perciò sarebbe legittima, in questa aberrante prospettiva, un’utilizzazione in condizioni di schiavitù a profitto della razza superiore tedesca. Ed effettivamente tra il 1941 ed il 1943 il regime hitleriano comincia a mettere in pratica queste idee, facendo uccidere intere famiglie di proprietari terrieri dei “protettorati”, passando le terre a coloni fatti venire dalla Germania, e mettendo a disposizione di tali coloni, in cambio dell’obbligo loro imposto di inviare in Germania una parte dei prodotti agricoli delle loro nuove proprietà, squadre di schiavi slavi per ogni sorta di lavoro.

In condizioni di ancora più atroce schiavitù vengono posti i circa tre milioni di prigionieri russi caduti in mano ai Tedeschi nella campagna militare del 1941 ed i circa nove milioni di ebrei rimasti nei territori controllati dalla Germania. Per costoro vengono creati nuovi lager oltre a quelli già esistenti in Germania da prima della guerra come Buchenwald e Dachau, tra cui i più grandi a Mauthausen in Austria, a Flossenburg ed a Belsen in Boemia, ad Auschwitz ed a Treblinka in Polonia, affidati a reparti speciali delle S.S. con il compito di organizzare lo sfruttamento delle energie lavorative degli internati con il minimo costo e fino all’esaurimen-to. L’orrore di questi lager arriva al punto che vi è consentito persino l’uso degli internati come materia prima. Infatti nella Germania di quegli anni vengono fabbricati saponi con grasso umano, pettini ed attaccapanni con ossa umane, borse, guanti e paralumi con pelli umane conciate. Altri internati sono usati come cavie in esperimenti chimici, chirurgici e farmacologici. Simili inauditi eccessi non sono solo l’espressione dell’universo demoniaco delle sole S.S. e dei più degenerati dei capi nazisti; la grande industria tedesca è beneficiaria dell’orrore dei lager e vi è coinvolta.

“In previsione di ulteriori esperimenti con nuova droga chimica, vi saremo grati se ci poteste procurare centocinquanta soggetti in buona salute.”

“Gli esperimenti sono stati eseguiti. Tutti i soggetti sono morti. Ci metteremo presto in contatto con voi per una nuova ordinazione.”

Queste frasi agghiaccianti si trovano in lettere spedite nel 1943 dalla Farben, il massimo gruppo chimico tedesco, all’amministrazione del lager di Auschwitz. Altri gruppi industriali tedeschi si comportano nella stessa maniera, e particolarmente numerose, poi, sono le industrie che, o per mancanza di operai – acutissima nella Germania dell’epoca, dopo che milioni di uomini sono stati chiamati alle armi, e non sono stati sostituiti che in parte da lavoratori stranieri fatti emigrare in Germania –, o per effettuare risparmi sui salari, stipulano veri e propri contratti di cessione di internati, da usare come schiavi per i lavori più pesanti e dequalificati, sotto l’amministrazione delle S.S.

La guerra imponeva lo sviluppo della produzione industriale e agricola, dunque lo sfruttamento intensivo delle risorse umane e insieme il massimo risparmio di quelle destinate all’approvvigionamento della popolazione civile. Le due esigenze non erano sempre compatibili: in Polonia si scontrarono, per esempio, da una parte una linea, sostenuta dal governatore Hans Frank, che intendeva sfruttare al meglio la manodopera polacca ed ebraico-polacca per incrementare la produzione industriale e soprattutto agricola; dall’altra, quella sostenuta da Himmler, il capo delle S.S. e della Gestapo, che prevedeva invece la deportazione degli ebrei verso est per far posto ai coloni tedeschi ed eliminare ogni contatto con le razze inferiori. Il piano di Himmler nel maggio del 1940 definiva anche i limiti dell’istruzione da impartire ai bambini polacchi:

“Saper contare fino a cinquecento al massimo, saper scrivere il proprio nome, apprendere l’insegnamento secondo il quale risponde a un comandamento divino obbedire ai Tedeschi ed essere onesti, diligenti e sottomessi. Leggere non lo ritengo necessario.”

Una logica analoga venne seguita nei territori occupati dell’Unione Sovietica, dove la brutalità nella conduzione della guerra conobbe addirittura un “salto di qualità”, coinvolgendo direttamente l’esercito e non solo le S.S. “Primo dominare, secondo amministrare e terzo sfruttare”, era la sintesi dei propositi tedeschi quali risultano da una conversazione di Hitler con i suoi più stretti collaboratori del luglio 1941. Nello stesso periodo, e con maggiore precisione nell’estate successiva, venne poi elaborato un piano, voluto da Himmler e sostenuto da Hitler, per la deportazione di 31 milioni di persone “razzialmente indesiderabili” in Siberia, la cui realizzazione fu impedita dagli sviluppi della guerra. Il piano non contemplava la deportazione dei milioni di ebrei residenti nell’area, che dunque sarebbero stati eliminati.

La “soluzione finale” del problema ebraico, per il numero delle vittime e la ferocia dell’odio razziale che ne fu all’origine, è il paradigma stesso della barbarie nazista. Ma tutta la condotta delle operazioni all’est fu all’insegna dello sterminio: questo fu il significato che i nazisti diedero alla guerra totale. Una guerra che costrinse gli avversari dell’Asse a rispondere, se non negli stessi termini, certo nella prospettiva di cancellare in modo definitivo una minaccia mortale alla stessa civiltà umana. E’ pur vero che quando si vuole sconfiggere il male occorre scendere sul suo terreno; in questo senso si viene sempre sconfitti. Ma i nazisti andavano fermati e casomai possiamo solo rammaricarci che non siano stati fermati prima.

Come si è detto, non esiste una precisa linea di continuità tra la persecuzione antisemita sviluppatasi in Germania dopo l’avvento al potere del nazismo e la “soluzione finale”, tragicamente messa in atto durante la guerra. Certo è che le intenzioni di Hitler, e dei vertici della classe dirigente nazista, di risolvere radicalmente il problema ebraico sono sufficientemente documentate nelle pagine di Mein Kampf. Lo sterminio, dopo l’avvio della persecuzione, rientrava nell’orizzonte delle possibilità anche se non ne costituiva l’esito necessario. Emigrazione, deportazione, ghettizzazione furono ipotesi alternative prese in esame e parzialmente applicate prima della scelta finale. Questa venne operata nel contesto della guerra di conquista e illustra l’imbarbarimento inaudito cui venne sottoposta la sua gestione.

Alla vigilia della guerra, il regime sembrava favorevole a un’emigrazione in massa verso diversi paesi dei circa 700.000 ebrei che ancora vivevano nel territorio del Reich dopo le annessioni dell’Austria e dei Sudeti. In questo modo si voleva evitare da un lato la loro concentrazione in un solo luogo – la Palestina o, come pure venne ipotizzato nel 1940, il Madagascar – e, dall’altro, alimentare l’ostilità antiebraica nei paesi di destinazione. Questa strategia mirava inoltre a dimostrare l’ipocrisia delle proteste, peraltro assai contenute, dell’opinione pubblica occidentale per la persecuzione in Germania. In effetti, la disponibilità degli altri paesi ad accogliere gli ebrei fu molto scarsa: la questione venne affrontata come un normale problema migratorio, e quindi alla luce delle logiche restrizioniste che allora prevalevano. Scoppiata la guerra, però, quanto più le conquiste territoriali procedevano, tanto maggiore era il numero degli ebrei che si ritrovavano sotto la giurisdizione tedesca: tre milioni e mezzo alla metà del 1940, altri cinque milioni dopo l’aggressione all’Urss. L’idea di trasferirli fuori dell’impero tedesco divenne impraticabile e prese corpo l’ipotesi di utilizzare la Polonia come “contenitore” di tutti gli ebrei “catturati”. Nell’ottobre 1941, convogli carichi di ebrei provenienti dalla Germania, dalla Boemia e dalla Moravia, da Vienna, dal Lussemburgo cominciarono ad arrivare nei ghetti polacchi, dove i deportati morivano a decine di migliaia per gli stenti e per le epidemie. A Varsavia, tra l’aprile e il maggio 1943, il ghetto sarebbe insorto, ingaggiando con i Tedeschi una battaglia disperata, destinata a concludersi inevitabilmente con la sconfitta e la distruzione del grande quartiere ebraico. Nonostante la sconfitta degli insorti vale la pena ricordare questo esempio di ribellione alla crudeltà nazista. A Varsavia i nazisti avevano provveduto alla costruzione di un muro alto due metri e mezzo, per due Km di perimetro, per chiudere un’area di quattrocento ettari con circa cento isolati urbani e parte del quartiere industriale della città. Furono fatti sloggiare gli ottantamila residenti, e vennero fatti entrare i centoquarantamila ebrei che risiedevano in altre zone della città. In seguito, ne furono ammassati altri settantamila, rastrellati anche lontano da Varsavia; e poi altri ancora, sino a raggiungere quasi il mezzo milione di persone. La “chiusura” del ghetto, dal novembre 1940, ne fece un luogo d’incubo: fame, epidemie, fucilazioni, massacri nelle abitazioni, rappresaglie per ogni infrazione di leggi mai scritte. Una disperata rivolta armata divampò nel ghetto, quando ormai più del 90% dei residenti era stato mandato a morire nei campi di sterminio o era stato falciato dalle epidemie e dalla fame. Il 19 aprile 1943, le S.S. decidono la liquidazione del ghetto: l’incendio appiccato ai caseggiati, le granate e i gas fatti esplodere agli imbocchi dei rifugi e alle possibili vie di scampo fanno strage. La rivolta durò sino al 10 maggio. Poi soltanto uno sparuto gruppo riesce ad imboccare la rete delle fognature per tentare la fuga. Pochissimi riescono miracolosamente a salvarsi.

Già alla fine del 1941, comunque, anche i fautori di un impiego degli ebrei come manodopera a basso costo riconobbero che esso non era conciliabile con l’imposizione di condizioni di vita intollerabili. Lo sfruttamento del lavoro continuò, ma ad esso si combinò lo sterminio sistematico nei campi.

I campi erano stati concepiti originariamente come luoghi di detenzione e di punizione per gli oppositori, gli indesiderabili e gli ebrei e di ricovero per i lavori forzati. L’ingresso in guerra aveva indurito la repressione all’interno della Germania e nei confronti dei paesi occupati: nel settembre 1941, il cosiddetto decreto “notte e nebbia” (bei Nacht und Nebel, un’espressione idiomatica che significa “in tutta segretezza”) aveva disposto la deportazione nei campi tedeschi di tutti i sospetti di resistenza, e tra questi anche una parte dei prigionieri di guerra. Dalla Germania in senso stretto i campi si diffusero da allora in tutte le zone occupate, e specialmente all’Est. Il campo di Auschwitz, nella Slesia già polacca, era stato costruito nel 1940 e ampliato l’anno successivo in modo da poter contenere fino a centomila prigionieri: nacque così la cosiddetta Auschwitz II, a Birkenau, nelle cui vicinanze cominciarono ad operare le camere a gas. Nei dintorni di Auschwitz vennero costruite anche una fabbrica dell’industria chimica IG-Farben e altre fabbriche minori, dove una parte dei prigionieri veniva inviata a lavorare. Lavoro forzato e sterminio si trovavano insomma qui in un rapporto ambiguo, ma strettissimo. La morte per sfinimento, per malattia e per fame era l’alternativa allo sterminio industriale; i più resistenti, quando non erano più in grado di lavorare, finivano a loro volta nelle camere a gas. Ad Auschwitz avvenivano anche le procedure di selezione tristemente note, che separavano le persone abili al lavoro da quelle destinate allo sterminio. I campi erano burocraticamente distinti in campi di lavoro, di transito, per i prigionieri di guerra e campi di eliminazione veri e propri: nei fatti, le distinzioni erano sfumate, anche se i campi polacchi di Chelmno, Treblinka, Belzec, Sobibòr furono specificamente destinati allo sterminio.

Agli occhi dei carnefici, i vantaggi dell’eliminazione nei campi erano molteplici: le esecuzioni si svolgevano nel chiuso dei lager ed evitavano le forme di “abbrutimento” registrate presso i reparti incaricati di fucilazioni in massa (la pratica più diffusa nei territori dell’est, a opera dei “gruppi operativi” – Einsatzgruppen – delle S.S. ma anche di reparti dell’esercito: i gruppi comunicarono a Berlino che a tutto l’aprile 1942 avevano trucidato circa 600.000 persone). La “soluzione tecnica” delle camere a gas, adottata per la prima volta nel campo di sterminio polacco di Auschwitz, in ragione della sua capacità di annientamento (si calcola che in quel solo lager siano state soppresse due milioni di persone), era stata derivata dagli esperimenti tecnici di eutanasia nei confronti di malati incurabili, schizofrenici, epilettici e affetti da malattie ereditarie, sviluppatisi in Germania subito dopo l’inizio della guerra per ragioni di igiene razziale e ufficialmente sospesi in seguito alle proteste provenienti da ambienti ecclesiastici. Tali proteste spiegano perché si evitò di formalizzare in un ordine scritto la decisione di procedere allo sterminio degli ebrei e delle altre “razze inferiori”.

Pianificata con ogni probabilità nell’estate del 1941, la messa in pratica dello sterminio sistematico iniziò nei primi mesi del 1942, dopo che, il 20 gennaio, un incontro aveva riunito in una villa sulla Grosser Wannsee, alla periferia di Berlino, i massimi gradi delle S.S., della polizia, di vari ministeri, del partito, del governatorato della Polonia. La riunione era stata presieduta da Himmler, che alle sue cariche aveva aggiunto anche quella di Commissario per “il consolidamento della razza germanica”. Gli ebrei, rastrellati da ovest verso est, sarebbero stati trasferiti dapprima nei ghetti di transito, in Polonia, e ai lavori forzati. La selezione naturale li avrebbe in tal modo decimati. I rimanenti, pericolosi perché possibile “seme di una nuova rinascita ebraica”, sarebbero stati “trattati di conseguenza”. Ma il punto veramente importante non è tanto l’individuazione di una data precisa – ad Auschwitz le camere a gas cominciarono a funzionare alla fine del 1941 – quanto il nesso, stabilito dagli stessi carnefici, tra la conquista di spazio vitale e lo sterminio degli ebrei, i due elementi centrali della Weltanschauung nazista. Primato imperiale, primato razziale ed eliminazione degli ebrei facevano parte di un’unica strategia, anche se l’ultima fase doveva avvenire senza lasciare traccia. Quasi tutti i campi di sterminio (Belzec, Treblinka e Sobibòr tra gli altri) vennero smantellati nel corso del 1943. Auschwitz invece restò pressoché intatta e continuò a funzionare sino al gennaio 1945.

Lo sterminio doveva svolgersi nella massima segretezza. Ma della sua attuazione, se non delle sue proporzioni, ebbe certamente notizia l’opinione pubblica occidentale: le reazioni del Vaticano, dei Britannici e degli Americani furono tuttavia colpevolmente caute e non ebbero alcun effetto. In Germania non ci furono apprezzabili movimenti di protesta; eppure le deportazioni e i trasferimenti all’est degli ebrei erano noti, come lo erano le fucilazioni in massa eseguite all’est. Il segreto, del resto, non poteva essere mantenuto, dato che centinaia di migliaia di persone, soldati, burocrati, senza contare gli esecutori, erano coinvolti, direttamente o indirettamente, nello sterminio. Alcuni uomini di buona volontà rischiarono la vita per informare il mondo libero di ciò che succedeva dietro i fili spinati dei ghetti e dei campi. Così, nel 1942, coloro che vogliono sapere sanno. Oggi, la ricerca storica è in grado di determinare con precisione l’itinerario delle informazioni, le date e i luoghi della loro destinazione e l’identità dei loro destinatari, così come i maneggi di questi ultimi, e di fatto la loro totale inazione. In compenso lo storico non può sempre rendere conto dei limiti della comprensione umana, della chimica dell’anima e dello spirito, delle inibizioni ideologiche e politiche; tutti questi elementi hanno certamente giocato un ruolo, più o meno importante, nella reazione o piuttosto nell’assenza di reazione di fronte alla condanna a morte del giudaismo europeo.

Consapevole o meno, il rifiuto di credere all’incredibile caratterizza tutti quelli che, responsabili politici o semplici cittadini, ricevono queste informazioni, man mano più precise. Secondo un sondaggio realizzato negli Stati Uniti nel dicembre 1944, solo il 4% degli Americani ammette che sono stati assassinati più di un milione di ebrei; a quella data, sono ormai più di due anni che è nota l’esistenza dei campi di concentramento. Nella sua postilla al rapporto dell’ufficiale S.S. Kurt Gerstein, che racconta ciò che ha visto nei tre campi di sterminio presso cui ha prestato servizio, uno dei capi della Resistenza olandese insiste sull’autenticità di questa testimonianza; ma confesserà più tardi che, benché abbia trasmesso l’informazione, nemmeno lui vi credeva tanto. Il sottosegretario di Stato americano, Summer Wells, fa persino di più: decide di tenere per sé il telegramma dell’8 agosto 1942, in cui il rappresentante del Congresso ebraico mondiale a Ginevra, Gerhart Riegner, informava il suo presidente Stephen Wise del progetto degli organi dirigenti del Reich di sterminare da tre a quattro milioni di ebrei concentrati nei territori occupati dalla Germania. Il Dipartimento di Stato giudica l’informazione “apparentemente infondata”. Tuttavia, nell’autunno, la valanga di informazioni è tale che l’Occidente deve accettare l’evidenza. Il 17 dicembre 1942, gli Alleati, a cui si aggiungono i governi in esilio dei paesi invasi dai tedeschi, pubblicano una dichiarazione contro le atrocità naziste. Ma non fanno niente di più. Quanto a Pio XII, il pontefice allora regnante, era certamente al corrente, ma non si mosse e non disse parola. Perché? Ancor oggi questi interrogativi destano inquietudine.

Simbolo della Shoah, Auschwitz lo è anche del silenzio nei confronti della Shoah. Nell’estate 1944, le informazioni concernenti questo campo sono abbastanza precise per poter prendere in considerazione il suo bombardamento. I piloti alleati effettuano delle missioni nelle immediate vicinanze, passano anche sopra le ciminiere. Ma quando l’agenzia ebraica chiede agli Alleati di agire, l’appoggio di Churchill, di Anthony Eden, del Comitato americano per i rifugiati di guerra, non è sufficiente per vincere l’opposizione dei comandi militari di Washington e Londra. Si tratta di mettere in pericolo la vita dei piloti, in un’operazione la cui efficacia militare è incerta. Anche le due più grandi comunità ebraiche del mondo libero, negli Stati Uniti e in Palestina, sono incapaci di lanciare la sfida. I primi evitano di esercitare pressioni troppo forti per paura di un ritorno di antisemitismo. Ben Gurion, convinto della impossibilità di cambiare il corso degli avvenimenti in Europa, investe tutte le energie nella preparazione del dopoguerra.

Distogliere lo sguardo e rifugiarsi nel privato fu dunque l’atteggia-mento più diffuso: effetto della paura e della durezza della repressione, ma anche della rinuncia a dare un giudizio e ad ammettere, per il solo fatto di essere a conoscenza di tali crimini, una corresponsabilità morale. Responsabile primo dello sterminio fu certamente l’antisemitismo forsennato dei capi nazisti; ma a renderlo possibile concorsero la logica burocratica ed efficientista di centinaia di migliaia di sottoposti e il silenzio della grande maggioranza della popolazione. Disciplina, lontananza dalla scena del delitto, impersonalità: furono questi gli strumenti dello sterminio e l’alibi dei suoi diretti e indiretti esecutori.

Certo, vi sono state persone eccezionali in tutte le nazioni che, mosse da semplice pietà umana, hanno messo a repentaglio la propria vita per combattere la piaga nazista: membri della Resistenza danese che salvano l’intera comunità ebraica del loro paese trasferendola clandestinamente nella neutrale Svezia; diplomatici che fanno il possibile per aiutare e salvare molte vite, come lo svedese Raoul Wallenberg in Ungheria; monasteri, conventi, fattorie che nascondono bambini ebrei, spesso intere famiglie; paracadutisti ebrei palestinesi che compiono vere operazioni-suicide oltre le linee tedesche per portare alla comunità in pericolo un messaggio di speranza. Troppo poco e troppo tardi certo, per riscattare il morale delle masse e l’inefficienza dei potenti; abbastanza tuttavia per far brillare nelle tenebre questo barlume d’umanità senza il quale non c’è vita degna di questo nome.

4.3. La fine dello sterminio e la resistenza ebraica

L’ultima fase dello sterminio è un enigma, perché da una parte i nazisti si affrettavano con zelo a completare il loro programma eliminazionista, dall’altra alcune persone che avevano preso parte alla soluzione finale, negoziavano con gli Alleati per porre fine all’assassinio di massa. Si trattava di un piano molto ampio, forse escogitato dallo stesso Himmler. La questione sul piano storico è rilevante perché pone la domanda cruciale: si potevano salvare più ebrei? Si sarebbe potuto fare di più?

I primi accenni ad un riscatto degli ebrei si ebbero alla fine del 1942, quando un rappresentante del Congresso mondiale ebraico a Ginevra ricevette la notizia che i collaborazionisti rumeni, con l’approvazione di Berlino, avrebbero permesso l’emigrazione di un gran numero di ebrei dietro pagamento di una forte somma. Intanto Dieter Wisliceny, ex-rappresentante di Eichmann a Bratislava, trattava con leader ebrei slovacchi, sulla base di due milioni di dollari, la possibilità di una fine delle deportazioni. Era il famoso Europa Plan, che venne bloccato dopo qualche mese. Intorno alla metà del 1944, Wisliceny riprese le trattative a Budapest con i leader degli ebrei ungheresi. Eichmann in persona arrivò a Budapest per chiedere diecimila autocarri e altro materiale in cambio della vita di un milione di ebrei, facendo capire che i veicoli sarebbero stati usati soltanto contro l’Armata rossa e non contro gli occidentali. Lo stesso Himmler, alla fine del ‘44, grazie alla mediazione di Jean-Marie Musy, un politico svizzero filonazista, entrò in contatto con l’Unione dei rabbini ortodossi degli Stati Uniti. Secondo Rudolf Vrba, fuggito da Auschwitz nel 1944, i negoziati erano un altro astuto inganno dei nazisti per mantenere gli ebrei inattivi e non farli partecipare ad operazioni della resistenza. Yehuda Bauer invece valuta molto seriamente le proposte di Himmler e sostiene che i nazisti, dopo aver deciso lo sterminio degli ebrei europei, valutarono la possibilità di tornare alla politica dell’emigrazione nel contesto di una ricerca di una pace separata con Stati Uniti e Gran Bretagna. Gli ebrei sarebbero stati usati come ostaggi per aprire trattative con gli occidentali.

Se il nazismo è stato anche un insieme di bande di malfattori in eterna lotta tra di loro, e non ci sono a questo punto motivi per dubitarne, si può dare credito al vice di Himmler Kaltenbrunner, quando ci ricorda le aspre rivalità tra i più alti dignitari nazisti, nelle ultime fasi della guerra, per un riorientamento del Reich, con la formulazione delle proposte più bizzarre. Kaltenbrunner, da sempre geloso di Himmler, rivelò i particolari della mediazione del suo diretto superiore, allo stesso Führer, il quale, inferocito, minacciò di morte qualsiasi tedesco che avesse permesso a degli ebrei di fuggire dal Reich. Ovviamente gli intrighi bizantini dei satrapi continuarono perché Hitler non aveva più potere di intervento sulla realtà. Secondo Peter Black, Himmler pensava che l’alleanza tra occidentali e sovietici, prima o poi, sarebbe finita, e cercava quindi di usare i disgraziati ostaggi ebrei per guadagnare tempo, fino a quando il corso degli avvenimenti si fosse volto di nuovo a favore dei Tedeschi. Queste trattative oggi ci appaiono assurde e fuori da ogni logica umana: ma cosa era stato sin a quel momento il nazismo se non un sistema con le stesse caratteristiche di assurdità e illogicità?

Una figura chiave degli ultimi negoziati fu il conte svedese Folke Bernadotte, nipote del re e vicepresidente della Croce rossa svedese; egli entrò in contatto con Himmler attraverso Felix Kersten, medico personale del capo delle S.S.; Bernadotte si incontrò più volte con Himmler, Kaltenbrunner e Ribbentrop. I negoziati non raggiunsero l’obiettivo di far rilasciare tutta la massa dei prigionieri chiusi nei campi di concentramento ma forse ottennero l’effetto di evitare l’ultima orgia omicida che molti paventavano. Secondo lo storico tedesco Martin Broszat, Himmler emanò nel gennaio 1945, l’ordine di evacuare i lager dell’Europa dell’est, che stavano per essere raggiunti dai sovietici, e di spingere verso ovest tutti i prigionieri che fossero in grado di muoversi. Il trasferimento coinvolse ebrei e non ebrei e provocò una mortalità spaventosa tra i deportati, già allo stremo delle forze prima di mettersi in marcia. Secondo Broszat almeno un terzo degli oltre settecentomila prigionieri registrati nel gennaio 1945 perse la vita nei mesi e nelle settimane immediatamente precedenti la fine della guerra nelle spossanti marce di evacuazione, sui treni-merci che impiegavano settimane a raggiungere la destinazione e, soprattutto, nei campi di raccolta disperatamente sovraffollati.

I sopravvissuti ci hanno dato testimonianze orripilanti della catastrofe che li accompagnò. Secondo Goldhagen, nel caos degli ultimi giorni del Terzo Reich, la rottura della catena del comando, lasciò carta bianca alle autorità dei campi e ai funzionari locali; essi dimostrarono una volta di più la fedelissima adesione all’antisemitismo nazista, uccidendo e torturando nel modo più brutale quei poveri resti di umanità. Alcuni ufficiali delle S.S. non volevano testimoni in grado di raccontare le atrocità subite, altri sentivano come una missione la necessità di uccidere tutti gli ebrei nell’ora del tramonto catastrofico del Reich, in una sorta di distruzione dell’universo wagneriano che i nazisti avevano inscenato per troppi anni. Appare ormai chiaro che la politica nazista nell’ultima parte della guerra seguì un doppio binario: il negoziato da una parte e l’accelerazione del massacro dall’altra. Hitler nel suo lucido fanatismo continuava ad emanare ordini che pretendevano l’eliminazione totale dei sopravvissuti; andò su tutte le furie quando seppe che a Buchenwald gli Alleati avevano trovato prigionieri ancora vivi. Dal 20 luglio del ‘44 Hitler era ormai fuori dal mondo reale e perseguiva soltanto un disegno: se la Germania doveva essere sconfitta, che almeno si trascinasse nel vortice di fuoco tutti i maledetti ebrei, veri responsabili della guerra e della distruzione del nobile popolo tedesco.

Nel soffrire l’atroce persecuzione gli ebrei, tranne rari casi, non si difesero: una diffusa resistenza ebraica non ci fu. Solitamente, la resistenza viene ritenuta una forma di lotta armata, organizzata e attuata da un gruppo formatosi a questo scopo; nel caso di un popolo ridotto a materia prima in un’industria di annientamento totale, questa accezione essenzialmente militare ha poco senso. Resistente è chi mira a impedire al nemico la realizzazione dei suoi obiettivi; gli ebrei non erano neppure in grado di capire quali fossero gli obbiettivi finali dei nazisti. Pensavano di dover affrontare singoli atti di barbarie, magari un lunga serie di atti di barbarie, ma non immaginavano che si trattasse di un processo finalizzato alla loro distruzione. Scrive Hilberg:

“Il modello di reazione degli ebrei è caratterizzato dall’assenza quasi totale di resistenza. Gli ebrei tentarono di addomesticare i tedeschi come si cercherebbe di domare una bestia selvaggia. Evitarono “provocazioni” e ottemperarono immediatamente a decreti ed ordini. Speravano che in qualche modo l’attacco tedesco si sarebbe esaurito da solo.”

Hilberg parla addirittura, in alcuni, casi, di “sottomissione preventiva” da parte degli ebrei; egli riconosce questo modello non solo nel comportamento dei leader ebrei, ma anche in quello delle masse e vi vede una risposta alla sciagura tipicamente ebraica frutto di un’esperienza vecchia di duemila anni. I campi di sterminio erano complessivamente controllati da non più di quattromila uomini: l’essenziale era che gli ebrei si muovessero lungo una catena di montaggio, il cui prodotto finale era il loro assassinio.

“Gli ebrei rimasero inermi perché sottovalutarono i nazisti; pensavano di avere a che fare con una delle tante persecuzioni, per sopravvivere alle quali i loro avi avevano scelto la passività. Ma ora i nazisti non offrivano speranza di tempi migliori; i nazisti volevano la fine del popolo ebraico. Sotto la spinta delle proprie tradizioni gli ebrei divenivano così vittime dell’ingranaggio mortale. Gli Judenrate, i consigli ebraici, costituiti dai nazisti in tutta l’Europa occupata, seguivano una politica di remissività istituzionale e divennero tutti strumenti della volontà tedesca, facendo muovere gli ebrei attraverso le varie fasi del processo di distruzione le iscrizioni per gli alloggi o la ghettizzazione, i rapporti statistici o contenenti altre informazioni, la tassazione e la confisca ad uso dei tedeschi, la costruzione di mura, gli avvisi alle vittime di presentarsi per il lavoro o l’evacuazione, persino liste per il trasporto oltre a retate dirette dalla polizia tedesca” (Hilberg).

Sulla scia di Hilberg anche Hannah Arendt giudicò il ruolo svolto dai leader ebraici il capitolo più buio nella distruzione del loro popolo:

“Ad Amsterdam come a Varsavia, a Berlino come a Budapest, si poteva fare affidamento sui funzionari ebrei, che avrebbero compilato le liste delle persone e delle loro proprietà, ottenuto il denaro dei deportati per pagare le spese della loro deportazione e del loro sterminio, individuato gli appartamenti abbandonati, fornito forze di polizia per aiutare a catturare gli ebrei e metterli sui treni, finché, come ultimo gesto, consegnarono i beni della comunità ebraica in perfetto ordine per la confisca finale.”

Secondo la Arendt non esiste una speciale predilezione ebraica per la passività e la reazione degli ebrei non è che uno degli effetti del crollo morale che i nazisti causarono in Europa. Il problema vero è dunque il processo di disumanizzazione che avvelena le società totalitarie.

Al giudizio terribile della Arendt rispose nel 1972, Isaiah Trunk con la pubblicazione di Judenrat, uno studio sui consigli ebraici creati dai nazisti. Alle generalizzazioni della Arendt, Trunk opponeva un oceano di dettagli, di casi particolari e di percorsi diversi seguiti dai vari leader ebrei. Trunk sottolineava il fatto che gli ebrei erano stati costretti a costituire i consigli e che i consigli erano obbligati a fornire servizi ai Tedeschi. L’odiata polizia ebraica dei ghetti veniva sottoposta ai ricatti più crudeli; ai poliziotti veniva detto che solo comportandosi così potevano sperare di salvare le proprie famiglie. Trunk sostiene che in alcuni casi i leader ebraici appoggiarono le attività di resistenza e che in altri casi le contrastarono per evitare guai peggiori. La verità è che è assai arduo esprimere giudizi in situazioni come queste.

Nell’attuazione del genocidio, la fuga diventava la forma elementare e più umana di resistenza. Resistere voleva dire semplicemente sopravvivere. O viceversa scegliere la propria morte, suicidarsi. Solamente i ghetti offrivano una minima possibilità di organizzazione; nei campi di lavoro, e a maggior ragione nei campi di sterminio dove i condannati arrivavano poco prima della loro uccisione, l’azione collettiva era praticamente impossibile. Il movimento clandestino si è di solito manifestato all’ultimo momento, poco prima dell’evacuazione finale del ghetto, e ha preso la forma della rivolta armata. La rivolta più importante, tanto sul piano militare che su quello simbolico, esplode a Varsavia, poco prima della liquidazione del ghetto (i primi trasporti lasciano il ghetto il 21 e 22 luglio 1942, i primi spari si odono il 9 aprile 1943). Anche qui, come negli altri ghetti dove si verificano rivolte armate, si tratta di scegliere la propria morte più che salvare la propria vita; si tratta soprattutto di restare nella memoria dei sopravvissuti con un gesto eroico. I combattenti sono per lo più giovani, liberi da vincoli familiari, e membri dei movimenti giovanili che assicurano loro la fratellanza sociale e politica indispensabile all’azione.

Le vittime ebree della “soluzione finale”, variano, secondo gli storici, dai cinque ai sei milioni di persone: è impossibile conoscere la cifra esatta. I nazisti hanno compilato le liste dei morti nei ghetti e nei campi di lavoro e di concentramento, e anche nei campi di sterminio. Ma una parte di rapporti, come per esempio tutta la documentazione dell’ufficio di Eichmann, è stata volutamente distrutta dai Tedeschi. È possibile fare delle stime abbastanza precise per regione e paese confrontando le cifre della popolazione ebraica alla vigilia della guerra con il numero dei sopravvissuti. Le comunità più antiche, più fiorenti culturalmente sono state cancellate, e con loro una parte di memoria collettiva e di cultura. I superstiti del giudaismo europeo sono circa un milione e duecentomila: sradicati, senza passato, spesso gravemente ammalati, essi vagano per l’Europa. Alcuni, circa duecentomila tornano in Polonia, dove il governo provvisorio li incoraggia a riformare la loro comunità, ma il pogrom di Kielce, del luglio 1946, mette fine anche a questa illusione. In Italia, alla fine della guerra, si trovano più di quarantamila ebrei, di cui più di trentacinquemila italiani; in Francia si trovano poco più di duecentomila sopravvissuti così come, complessivamente in Ungheria e Cecoslovacchia.

(Da Nicolò Scialfa, Lo sterminio degli ebrei e la voglia di dimenticare, Roma, 2002)

J.V.

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