Fouché: un uomo sottovalutato

Fouché: un uomo sottovalutato

Nantes, 31 maggio 1759. Nasce Joseph Fouché da una famiglia di marinai. Ben presto si comprende che il bimbo, anemico e sgraziato, non è tagliato per quel mestiere. Per un figlio della piccola borghesia non esiste carriera nell’ esercito o nell’ amministrazione statale. Il Terzo Stato viene escluso da ogni posto sociale importante da una monarchia corrotta e mal diretta. Mezzo secolo dopo si prenderà con la forza ciò che viene negato quanto ora si chiede umilmente. Resta soltanto la Chiesa. La potenza bimillenaria trova un posto ad ogni uomo di ingegno. Il piccolo Joseph è assai dotato intellettualmente ed impara presto sui banchi degli Oratoriani, al punto da divenire professore di matematica e fisica, istruttore e prefetto di collegio nella stessa scuola dove ha studiato. Ufficio e dignità modesti ma rispettabili. Insegnando, Joseph impara, e anche gli anni presso gli oratoriani verranno utili in seguito perché apprende l’arte della dissimulazione, il silenzio, la capacita di incassare colpi. Potrebbe far carriera prendendo i voti ma compare subito la sua caratteristica essenziale: tenersi sempre una via d’ uscita, la volontà di non legarsi completamente a qualcosa. Anche alla Chiesa non si concederà completamente, come farà più tardi con la Rivoluzione giacobina, il Direttorio, il Consolato, l’ Impero o la Monarchia. Per tutta la vita non sarà fedele completamente a nessuno tranne che alla moglie. Dai venti ai trent’ anni esercita l’ analisi psicologica, l’ arma che gli consentirà di misurarsi e battere personaggi del calibro di Napoleone e Robespierre. Sale alla tribuna della Storia grazie alla sua capacita di pronunziare, con la stessa voce atona, le parole più feroci e le più dolci, le condanne a morte e i discorsi politici più infuocati. Non è un caso che anche Talleyrand e Sieyés, maestri della dissimulazione come Fouché, provengano dalla scuola della Chiesa cattolica. Aggiungiamo una ferrea disciplina, una innata avversione per l’ ostentazione e il lusso apparente, la capacita di celare ogni minimo sentimento e abbiamo il prodotto finito: uno degli uomini più potenti e temuti della Storia, l’ inventore della moderna polizia investigativa, il ministro per eccellenza, il servitore dello Stato per antonomasia. Eppure il suo nome viene misconosciuto o vituperato da tutti gli storici: traditore, intrigante, rettile, disertore, ipocrita. Persino i grandi storici come Michelet o Blanc non ne colgono la vera essenza e lo inseriscono tra le comparse mentre è grazie a lui che vengono superate autentiche tempeste. Solo Balzac, profondo conoscitore dell’ animo umano, delle luci e delle ombre, ne ha colto la sublime grandezza. Lo chiamerà spirito fosco, profondo, inconsueto e mal conosciuto… la testa più forte che io conosca… una di quelle figure che posseggono tanta profondità sotto la loro superficie, da rimanere imperturbabili nel momento dell’ azione, e da poter essere compresi soltanto più tardi. Fouché è il politico per eccellenza. Esercita sugli uomini una pressione addirittura maggiore di quella napoleonica. Non vuole essere guardato in volto, non scopre il suo gioco, resta nell’ ombra, detesta le luci della ribalta. Oscuro membro della Convenzione, politico di rango col Direttorio, protagonista del 18 brumaio, regicida e poi monarchico, primo consigliere di Napoleone, amico profondo di Giuseppina. Nel 1790 è istitutore sconosciuto, due anni dopo saccheggiatore e devastatore di templi cristiani, nel ‘93 giacobino estremista e nel ‘98 milionario ricchissimo, nel 1808 Duca di Otranto. Machiavellico avvolto nel mistero, personaggio amorale, uomo moderno per antonomasia.
Intorno al 1778 inizia in Francia quella bufera sociale che sconquasserà anche gli istituti oratoriani spingendo gli ecclesiastici a mettersi in contatto con piccoli borghesi e militari. Il precettore Fouché è bene accolto ad Arras al circolo Rosati; qui conosce Lazare Carnot e il pallido avvocato Maximilien De Robespierre (a quel tempo teneva alla particella nobiliare). I rapporti con Robespierre rischiano di divenire parentali giacché Carlotta, sorella di Maximilien, si fidanza con Joseph. Perché il legame poi si sciolga resta un mistero ma non lede l’amicizia tra i due uomini, anzi sarà il precettore tonsurato a prestare al pallido leguleio le monete d’oro necessarie per andare a Parigi dove è stato eletto deputato del Terzo Stato. Nel 1792 toccherà a Fouché recarsi a Parigi come deputato della Convenzione. Ha trentadue anni. E’ tutt’altro che bello, una figura smorta, una voce senza timbro, un aspetto da malato. Non conosce passioni, è astemio, passa le giornate fra carte e documenti. Non si abbandona mai visibilmente all’ira ed in questa freddezza sta la sua forza. E’ prudente e modesto, astuto e calcolatore. E’ ambizioso ma non vanitoso. Non si lega alle proprie convinzioni, si tiene sempre una via d’uscita aperta. Cadono i Girondini e Fouché resta. Cadono i Giacobini e Fouché rimane e sarà così con tutti i regimi fino alla morte. Ma il 16 gennaio 1793 Fouché è costretto a scegliere. Dovrà pronunziare un si o un no, vita o morte per il cittadino Luigi Capeto. La sua appartenenza girondina fa pensare che si pronuncerà per il no ma il giorno 16 gennaio, in aula, Fouché ha fatto i calcoli dei voti e si è accorto che il partito di maggioranza sarà quello dei si. Sale con passo rapido i gradini della tribuna e le sue deboli labbra mormorano pianissimo: La mort. Negli anni a venire Fouché dovrà faticare per cancellare quelle parole. Con due parole ha colpito alle spalle Condorcet e i suoi amici, tradendoli ed ingannandoli. In futuro ingannerà personaggi ben più autorevoli: Robespierre e Carnot, Barras e Napoleone. Tutti questi potenti, nell’ora del pericolo, verranno traditi e ingannati da lui. Con sorriso freddo passa impudentemente da un partito all’altro. Ciò che possa pensare l’opinione pubblica lo lascia indifferente. Per lui conta una cosa sola: stare dalla parte del vincitore, mai del vinto. Dal 16 gennaio il grande camaleonte Joseph Fouché da moderato si trasforma in terrorista e regicida. Ma Robespierre non si fida di lui, avverte la sua doppiezza. Quando l’insurrezione antigiacobina di Lione richiederà una repressione senza pari da parte del Governo, sarà proprio Fouché ad occuparsi di questo. Organizza i massacri e redige rapporti pieni di entusiasmo terrorista. Rade al suolo palazzi, mitraglia quanti si oppongono alla rivoluzione. Da questo momento l’ex tonsurato diventerà il mitragliatore di Lione, l’assassino di duemila vittime. Malgrado le stellette guadagnate con i massacri, Robespierre gli è ostile ma commette l’errore di attaccarlo frontalmente. Il 23 messidoro 1794 Fouché indossa già la camicia da morto. Si nasconde e nello stesso tempo sparge veleno contro il suo rivale: la paura che tutti hanno di Robespierre diventa la salvezza da Robespierre. Barras, Tallien, Carnot diventano tutti avversari dell’incorruttibile. Il 9 termidoro Robespierre e Saint- Just cadono. Gli storici omettono solitamente che il grande burattinaio è proprio Fouché. Quando la testa di Robespierre cade i congiurati si chiedono perché il popolo sia così entusiasta della condanna di un uomo che fino al giorno prima venerava come un Dio. Da questo momento tutte le violenze rivoluzionarie verranno caricate sulla coscienza di Robespierre. I termidoriani si chiamano fuori: l’assassino è stato solo Robespierre. Se qualcuno si aspetta che Fouchè, il capo vero di Termidoro, si faccia vedere pubblicamente a fianco di Tallien e Barras, sbaglia. Fouché si chiude nel silenzio, vede lontano, non vuole legarsi alla reazione. I fatti gli danno ragione. Fouché teme di essere sacrificato dai termidoriani come ex terrorista. Comprende che bisogna scagliare contro di loro la plebaglia come al tempo del 10 agosto. Non ama mettersi in mostra, non è Marat o Danton; suggerisce, arma la mano degli ingenui. A quel tempo si aggira per Parigi un repubblicano idealista dal cuore entusiasta e dalla mente mediocre: Francoise Baboeuf, detto Gracco. Ha poche idee e primitive, è l’uomo giusto da usare per l’operazione che ha in mente Fouché. Gracco è lusingato di avere come consigliere un celebre deputato. Accetta ogni consiglio e dà l’assalto ai termidoristi e al governo. La risposta non si fa attendere e Baboeuf sarà presto incarcerato e fucilato dopo essere stato scaricato da Fouché. Questa volta però il governo termidoriano decide di elevare l’accusa contro Fouché per i suoi atti terroristici di un tempo. E’ il 22 termidoro del 1795. L’ombra di Robespierre sembra voler catturare Fouché così come quella di Danton aveva catturato Robespierre. Bisogna prender tempo, uscire di scena secondo la celebre ricetta di Sieyès, che non aprì bocca durante gli anni del terrore e interrogato in seguito su cosa avesse fatto a quel tempo, rispose genialmente: sono sopravvissuto. Fouché riesce così a salvarsi la vita; è un uomo dimenticato e disprezzato, senza patrimonio, un’ombra riparata soltanto dalle tenebre. Per tre lunghi anni scomparirà dalla scena.
L’esilio, come quello di Fouché, è indispensabile per produrre grandi opere letterarie o politiche. Mosè, Cristo, Maometto, Budda, devono distaccarsi dagli altri e restare soli prima di poter costruire le loro religioni. La poesia di Milton deriva dalla sua cecità, la musica di Beethoven dalla sordità, la prosa di Dostojevskij dal carcere duro così come il Don Chisciotte di Cervantes, la clausura di Lutero alla Wartburg. Per andare avanti con questo ragionamento sia sufficiente pensare all’esilio di Dante, a quello volontario di Nietzsche fra le nevi dell’Engadina, alla terra desolata di Eliot e all’esilio a Costantinopoli di Auerbach. Per tre anni Fouché vive in una triste soffitta, un tugurio sudicio con la moglie e due bambini malati. E’ povero, tutti gli amici lo hanno abbandonato. Soltanto Barras, il potentissimo Barras, lo riceve di nascosto e gli affida qualche miserabile e malpagato losco compito. Fouché spia, ascolta e raccoglie informazioni per Barras. Pian piano si trasforma in un detective privato. Dopo una lunga notte di miseria sta sorgendo in Francia un nuovo padrone: il denaro. Ed è a questo nuovo padrone che Fouché si affiderà. Tra il 1791 e il 1795 si doveva tenere nascosto il lusso pena la morte. Ora che i Catoni alla Saint-Just e la ghigliottina non tagliano più teste, ritornano gli accaparratori, i requisitori, gli speculatori. Per questi affari sporchi Fouché è l’uomo ideale. La miseria e la fame hanno eliminato in lui ogni odio teorico verso la corruzione. Giovandosi del titolo poco onorifico di spia di Barras, Fouché lucra tangenti con gli speculatori. Le forniture all’esercito sono il suo pane e peccato se poi i soldati devono marciare con pessimi stivali. Barras vorrebbe vendere addirittura la repubblica a Luigi XVIII in cambio di un titolo nobiliare e di una ingente quantità di oro. Fouché diventa di nuovo indispensabile per questo tipo di operazioni al punto che nel 1798 viene nominato ambasciatore della Repubblica francese in Olanda. La crisi termidoriana lo eleva addirittura al rango di ministro. Il 3 termidoro 1799 l’ex terrorista Fouché viene nominato Ministro di Polizia della Repubblica francese. Molti temono che i giacobini possano tornare al potere ma ancora una volta si avvera il motto di Mirabeau (che oggi ha valore per la sinistra) I Giacobini ministri non sono più ministri giacobini. Fouché distilla il miele della pacificazione: tranquillità, ordine, sicurezza. Lotta contro l’anarchia. Limitazione della libertà di stampa. Fine della pericolosa eccitazione delle masse. Gli estremisti di sinistra non hanno imparato granché e così continuano ad urlare e a minacciare, a invocare la plebe vendicatrice. Velleitarismo parolaio come al solito. Il nuovo ministro di polizia, imperturbabile, fa chiudere tutti i club. Fouché sa benissimo che la Francia è stanca di estremismi e di velleitarismi; vuole tranquillità, ordine, pace e finanze solide. Fouché sa bene che contro i veri uomini come Danton e Robespierre bisognava lottare, contro gli attuali chiacchieroni basta un gesto energico. Col giro di chiave alla porta dei club si chiude la rivoluzione francese. Il potere di Fouché cresce a dismisura; ha in mano i fascicoli su tutti gli altri ministri, sui generali, sull’intera vita politica. Costruisce una rete spionistica capillare e ha al suo servizio, grazie ad un’alleanza maturata nel tempo, la donna più importante di Francia: Giuseppina Bonaparte. Fouché è il primo a capire che la notizia è tutto: in guerra e in pace, in politica e in finanza. Le informazioni portano denaro e il denaro è l’olio che lubrifica la macchina delle notizie. Banche, bische, postriboli versano nelle mani del ministro milioni di franchi e questi si trasformano in corruzione e la corruzione in notizie. Questo complesso apparato funziona soltanto nelle mani di Fouché. Egli sa benissimo di essere ormai indispensabile a qualsiasi potere politico. Il mitragliatore di Lione non si serve più del terrore brutale della mannaia, ma del sottile veleno della paura col quale opprime e tortura migliaia di persone. La rozza ghigliottina di Robespierre viene sostituita da un raffinato ordigno poliziesco. L’anticamera di Fouché vede passare tutti i potenti, uomini e donne, grandi banchieri, generali, politici e giornalisti. Fouché sa tutto e ricatta discretamente tutti. Sa persino, lui solo, che il generale Bonaparte non è più in Egitto e che fra poco sbarcherà in Francia. La sua fonte è sicura: Giuseppina. Corrompere questa creola eterna dissipatrice e piena di debiti non fu difficile per Fouché. L’ 11 ottobre 1799 il direttorio convoca il ministro di polizia e gli comunica che Bonaparte è sbarcato a Fréjus. Fouché finge di essere sorpreso e consiglia l’indulgenza. Non ha ancora deciso da che parte stare. Quando comprende che Napoleone è il più forte si schiera subito dalla sua parte. Si reca immediatamente in Rue Chantereine e si fa annunciare. Per la prima volta i due si misurano. Da un lato il genio del dominatore, lo sguardo dell’aquila, dall’altro l’astuzia personificata, il conoscitore profondo delle passioni e dei vizi umani. Padrone e servo direbbe Hegel, il creatore di un mondo nuovo e il politico moderno. Fouché, che sa sempre tutto, per giorni diventa cieco e sordo, non sa nulla dei preparativi del colpo di stato. Alle sette di sera del 18 brumaio del 1799 Bonaparte, console, è il padrone della Francia. Visto l’esito incerto della giornata, Fouché aveva già pronte due dichiarazioni ufficiali: una per la vittoria e una per la sconfitta. La vera vittima è Barras, l’uomo che, nel momento della miseria, aveva aiutato Bonaparte e Fouché. I due si erano già incontrati nell’oscurità dell’anticamera di Barras, quando si trovavano in disgrazia. Ha ragione Balzac: nessuno ti perdonerà il bene che gli hai fatto. Una cosa sola conforta Barras ed è che Bonaparte abbia preso Fouché al suo servizio; sa che prima o poi tradirà anche lui. Il 24 dicembre del 1800 Bonaparte è diretto all’Opéra per assistere alla prima della Creazione di Haydn. Una terribile bomba viene lanciata contro la sua carrozza. Grazie a circostanze fortuite Bonaparte e Giuseppina si salvano e il primo console assisterà impassibilmente alle melodie del vecchio musicista, ma poche ore dopo, al ritorno alle Tuileries, si scaglierà violentemente contro il ministro di polizia accusandolo di non aver fatto arrestare i suoi amici di un tempo: i Giacobini. Fouché, con calma, fa osservare che non sono stati i Giacobini ma i Monarchici. Napoleone continua a vomitargli addosso la sua ira, Fouché resta impassibile e pazientemente trova le prove che portano all’attentato monarchico. Quindici giorni dopo dimostra al primo console, prove alla mano, che gli esecutori materiali sono stati gli Chouans, capeggiati da Cadoudal. Il tutto è stato eseguito con denaro inglese. Lo stesso Napoleone deve ammettere che Fouché ha giudicato meglio di altri. Il ministro conquista l’ammirazione del primo console ma non la sua riconoscenza. I potenti non amano chi li ha visti in un momento di debolezza o chi si dimostri più saggio di loro. Plutarco racconta che un soldato in battaglia salvò la vita al suo sovrano e invece di seguire il saggio consiglio di fuggire subito, fece affidamento sulla gratitudine del re: ci rimise la testa. Bonaparte sa di non poter legare le mani del suo ministro di polizia e allora gliele riempie d’oro purché si dimetta. Secondo lui la Francia pacificata non ha più bisogno di un tanto potente ministro di polizia. Nel 1802 sua eccellenza il senatore Joseph Fouché si ritira ricchissimo a vita privata. Una vita privata dorata questa volta. La tigre di Lione si è trasformata in una gazza ladra, padrona di quindici milioni di franchi. La sua vita resta sobria, non ha vizi, non è vanitoso. Ma dietro quella serenità taciturna cova la volontà di guardare di nuovo il volto di Medusa, il volto del potere. Per fortuna di Fouché Bonaparte commette molti errori. Il più grande, istigato da Talleyrand, è far rapire ad Ettenheim nel Baden e fucilare nel castello di Vincennes il duca di Enghien. Fouché commenterà: è più che un delitto… è un errore. Ora che il console Bonaparte vuole diventare Cesare ha di nuovo bisogno di Fouché. Dopo due anni di esilio dorato sua eccellenza il senatore Fouché è di nuovo ministro. Questa volta di Sua Maestà l’Imperatore Napoleone. Per la quinta volta Fouché pronuncia un giuramento di fedeltà: il primo all’antico regime, il secondo alla Repubblica, il terzo al Direttorio, Il quarto al Consolato. Napoleone e Fouché non si amano ma nessuno comprende Napoleone meglio di Fouché. L’Imperatore spesso lo mortifica, il ministro si vendica sottilmente tramando con Giuseppina dalla quale viene a conoscenza di tutti i segreti della larga e vorace famiglia imperiale. Non si amano neppure Fouché e Talleyrand, simili nella loro visione chiara e machiavellica, insensibili ed infedeli entrambi. Appartengono allo stesso tipo di amoralità. Il loro contrasto deriva dalla provenienza: quando il povero figlio di mercanti Fouché insegna per pochi soldi al mese, Talleyrand, duca di Périgord ed arcivescovo di Autun porta la toga violetta ed è signore spirituale di un’intera provincia di Francia. Anche il loro rapporto con il denaro è diverso: Talleyrand lo accumula per sperperarlo, da vero nobile, Fouché, da commerciante, lo ama per ammucchiarlo. Uno ama il lusso, le donne, l’arte, i banchetti; l’altro è sobrio come uno spartano. Talleyrand non diventerà mai un uomo del popolo, Fouché non diventerà mai un aristocratico malgrado il titolo conferitogli di Duca di Otranto. La loro inimicizia è proverbiale in tutta Parigi ma diventeranno alleati a causa delle smanie di guerra dell’Imperatore. Appresa la notizia di Waterloo, Fouché considera Napoleone un cadavere ingombrante e scrive immediatamente al Duca di Wellington, al vincitore. Talleyrand, per suo conto, aveva già abbandonato da tempo l’Imperatore. Fouché e Talleyrand preparano il ritorno di Luigi XVIII. Napoleone viene sepolto vivo a S. Elena e il Vizio e il Tradimento passeggiano col grasso Re. Chateaubriand, nemico di Napoleone, non può fare a meno di descrivere la scena fantastica che si svolge a Neuilly: il Re Luigi XVIII, il discendente di San Luigi, è in affari con uno degli assassini di suo fratello, il sette volte spergiuro Fouché e da lui riceverà l’ottavo giuramento. E’ sarà Talleyrand, vescovo, repubblicano, servo dell’Imperatore ad introdurre il suo degno compare. Lo zoppo pone il braccio sulla spalla di Fouché. Due atei si accostano all’erede di Luigi il Santo. Tradiranno anche lui. E’ solo questione di tempo. Sarà Talleyrand stesso, qualche anno dopo, a ricevere dal re il gradito incarico di spiegare a Fouché come la sua presenza alle Tuileries non sia più gradita. Con il consolidamento della monarchia il regicida non è più opportuno. Da elegante aristocratico qual è Talleyrand, di fronte ad un folto pubblico di nobili parla della bellezza dell’America e dice che sarebbe allettato dal posto di ambasciatore negli Stati Uniti. All’improvviso, nel bel mezzo della festa si volge a Fouché e gli dice: Duca d’Otranto, quel posto, come vedete, è bellissimo: se lo desiderate, è vostro. Fouché comprende . Torna a casa e redige la lettera di dimissioni. Uno degli uomini più potenti e temuti d’Europa viene ora bandito dalla Francia e non è gradito da nessuna corte europea. Il 26 dicembre 1820, a Trieste, si spegne questa vita singolare. Dopo quattro anni di oblio, nel 1824, corre voce che stiano per venire alla luce le sue memorie. Mezza Europa è preoccupata. Ma Fouché resta fedele a se stesso anche dopo morto. Le Memorie, che tanto spaventano i potenti, vengono pubblicate… ma sono false. Fouché non si smentisce. L’ex seminarista ha portato con sé nella tomba i suoi segreti. Con lui inizia però, nel bene e nel male, la politica moderna.

Di Nicolò Scialfa

J.V.

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