Cvetaeva

Cvetaeva

Alla povera mia fragilità tu guardi senza dire una parola. Tu sei di marmo, ma io canto, tu – statua, ma io – volo. So bene che una dolce primavera agli occhi dell’Eterno – è un niente. Ma sono un uccello, non te la prendere se è leggera la legge che mi governa. (Alla povera mia fragilità)

Marina Cvetaeva costretta al suicidio nel 1941 a 49 anni dall’alleanza tra bolscevichi e nazisti. Per lei l’invenzione poetica non è menzogna ma la cosa come poteva e come doveva essere. Nasce a Mosca nel 1892 da un professore di Belle Arti e da una pianista. La madre le trasmette l’amore per la poesia. Scrive in russo, francese e tedesco. Voce originale del simbolismo, perseguitata dall’ottuso regime staliniano anche a causa delle sue posizioni vicine ai Bianchi. Suo marito, Sergej Jakovlevič Efron combatte per loro come ufficiale. Dopo l’arresto di Sergej, Marina vive di elemosine e sofferenze insieme alle due figlie. La piccola Irina muore in orfanotrofio. Costretta ad emigrare prima a Berlino, poi a Praga e infine a Parigi nel 1925. Nel ‘39 torna a Mosca col figlio Georgij sperando di ricongiungersi col marito.

Ma Efron era stato arrestato e fucilato dall’NKVD. La figlia maggiore Ariadna nel ‘37 era stata inviata in un campo di lavoro. Povertà, isolamento, tristezza infinita la spingono ad impiccarsi nel villaggio di Elabuga, sulle rive del fiume Kama, dove era fuggita dopo l’invasione tedesca. Per vent’anni soltanto silenzio su di lei. Poi negli anni sessanta iniziano a circolare le sue meravigliose poesie d’amore. “Sparsi fra la polvere dei magazzini, dove nessuno li prese o li prenderà, i miei versi, come i vini pregiati, avranno la loro ora”. L’immenso Pasternak scrive di lei “era precisamente ciò che avrebbero voluto essere e non furono tutti gli altri simbolisti messi insieme”.

Donna passionale, innamorata dell’amore “Riconosco l’amore dal pianto delle vene lungo tutto il corpo”, malgrado i molteplici amori per uomini e donne, cercherà sempre suo marito “come un cagnolino”. La sua poesia è musica dolcissima. Cerca risposte nei versi improntati alla ricerca di ciò che è andato perduto o non è mai esistito. Inventa il parlato nella poesia, fonda un linguaggio poetico. Espressione esemplare di un animo nobile, colto e raffinato, distrutto dal suicidio europeo e dalla barbarie del Novecento. “In tutto – in ogni persona e sentimento – io sto stretta, come in ogni stanza: di una tana o di un castello. Io non riesco a vivere- e cioè a durare- nei giorni, e ogni giorno vivo fuori di me. È una malattia inguaribile e si chiama – anima -“. Nella sua esistenza incontra moscerini e giganti. Lei nobilita persino i moscerini, li fa diventare giganti sino a quando la dura realtà non si manifesta inesorabile. L’amore con Pasternak è uno straordinario epistolario di due anime che hanno molto in comune, dalle madri pianiste alla passione sconfinata per la poesia. Un amore letterario, che non si materializza, giocato sull’assenza (come sono forse tutti i grandi amori) “Io non posso essere presenza, e neanche tu. Andremmo d’accordo… Quando amate una persona, avete sempre voglia che se ne vada, per poter sognare di lei… Le nostre vite si somigliano, anche io amo coloro con cui vivo, ma si tratta di sorte. Tu, invece, sei la mia libertà, la libertà puškiniana, quella che viene data in cambio della felicità… non credo affatto che con te sarei felice! La felicità?… Tu sei il mio fratello delle vette, tutto il resto, nella mia vita è pianura.” Nel 1926 incontrano Rilke, loro idolo, l’essenza stessa della poesia, dell’amore di Marina per la Germania e per la lingua tedesca. Da lì a poco il malato Rilke morirà di leucemia. Pasternak e Marina non riescono più a scrivere poesie, sono due orfani. Ormai vivono sulla terra. Sopravvivono come Zivago e Lara, non si incontrano più. Ogni persona sensibile credo si riconosca un po’ in Marina e Boris, nelle loro debolezze e nella immensa forza che la loro passione per l’amore esprime.

E infine Marina dirà “La vita è una stazione, presto me ne andrò, dove – non lo so dire”. J.V.

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